IL GIORNO DELLA MEMORIA

 

Istituo Comprensivo Cena,i disegni e riflessioni sulla Giornata della Memoria degli alunni della 4B

Istituo Comprensivo Cena,i disegni e riflessioni sulla Giornata della Memoria degli alunni della 5 A

 

Istituo Comprensivo Cena,i disegni e riflessioni sulla Giornata della Memoria degli alunni della 4 A a cura dell Insegnante Silvia Aragno

 

 

Pubblichiamo per la Giornata della Memoria , un video inviato alla nostra sezione della Prof.ssa Lucia Margherita Marino
dell Associazione territoriale <<Estemporanea>> registrato con
l orchestra Giovanile .
Riportando queste parole :
” Abbiamo suonato per tutte le donne, gli uomini, i bambini che non ci sono più. Per non dimenticare “…

 

LAGER

Un litro virgola zero sessantanove. Prima che l’eliminazione dei centilitri in eccesso la arrotondasse a un litro esatto, questa era la misura del Maßkrug, il boccale di birra dell’Oktoberfest di Monaco di Baviera. Negli anni Trenta, durante la tradizionale festa autunnale tedesca, se ne svuotavano già milioni, anche per il prezzo relativamente contenuto della popolarissima bevanda luppolata: novanta pfennig, più o meno un quarto di dollaro dell’epoca. Giorni e giorni di cori gioiosi, danze spensierate, cappelli piumati, salsicce e costolette, pantaloni tirolesi e Maßkrüge schiumanti. Quanto ci vuole per scolare un litro virgola zero sessantanove di birra? Se non hai un fisico allenato, ci metti di sicuro più del tempo necessario per prendere l’auto nel centro di Monaco, puntare a nord-ovest, percorrere una ventina di chilometri e trovarti in un rigoglioso inferno verde di prati e di alberi: Dàchau. Lassù, negli anni dei centilitri in eccesso, l’orrore abitava a venti minuti dai brindisi dell’Oktoberfest. Venti minuti tra le risate e la paura, le canzoni e i lamenti, la birra e il dolore. E per un caso beffardo la birra tipica dell’Oktoberfest, la Märzen, è speciale: la sua categoria si chiama “lager”.

La prima cosa di Dàchau che si vede da lontano è una ridente collina dominata da un castello e da edifici d’epoca medievale con un antico borgo, ancora ben conservato, che nel dopoguerra si è notevolmente sviluppato fino a diventare una prospera cittadina. Per certi aspetti è un po’ come Rivoli rispetto a Torino. Ma c’è un’ombra pesante che l’oscura. È nella periferia orientale, in un’area malsana un tempo disseminata di acquitrini, che si è insediato il primo nonché uno dei più funesti campi di concentramento della follia hitleriana.

Al campo si accede da un immenso parcheggio, dopo aver percorso viali e vialetti costellati di cartelli che illustrano il disegno concentrazionario iniziale e le trasformazioni della struttura nel corso del tempo. Questo lager, sorto nel 1933 per vigoroso impulso di Himmler, era destinato al lavoro coatto e all’eliminazione fisica degli oppositori politici, primi fra tutti i comunisti e i socialisti, e di migliaia di sacerdoti: dalla “baracca dei preti”, nel blocco 26, ne sono passati oltre 2500; di questi più di un migliaio non è tornato. Dalla fine degli anni Trenta, poi, Dàchau è divenuto anche un campo di sterminio di ebrei e appartenenti a gruppi etnici e sociali che il regime intendeva sopprimere, come pure di migliaia di prigionieri di guerra, soprattutto sovietici.

Appena superato il cancello, con in alto la fatidica iscrizione che inneggia al lavoro che rende liberi, ti accoglie l’invito a iniziare la visita da una sala che, tramite diversi pannelli e fotografie, illustra in modo asciutto e incisivo il contesto storico, politico e ideologico da cui ebbero origine i crimini del nazionalsocialismo. Particolare rilievo ha qui la sciagurata teoria della razza che condurrà ai genocidi. Ma da subito ciò che soprattutto colpisce il visitatore è la straordinaria razionalità dell’organizzazione che presiedeva alla gestione del campo. Una pressoché perfetta macchina di repressione e di morte a venti minuti dall’Oktoberfest.

Ti avvii verso una bassa casermetta posta sul lato destro del campo. Qui scopri che, lungo uno stretto e interminabile corridoio, sono allineate decine e decine di celle di isolamento e punizione perlopiù destinate ai detenuti politici e religiosi. Piccoli e squallidi locali di due metri per due con uno stretto tavolato per letto e in alto una minuscola grata come unica fonte d’aria e di luce. Sui muri di alcune celle restano incise parole che non capisci. Una targa ricorda che vi furono reclusi, fino a incontrarvi la morte, noti leader di partito ed eminenti uomini di chiesa che avevano opposto resistenza al regime.

L’edificio principale, attualmente adibito a museo, mostra locali e strumenti che danno prova dell’intollerabile disciplina del lavoro obbligatorio e delle sadiche regole del campo. Sono esposti anche vari oggetti trovati e conservati dopo la liberazione, come divise, indumenti, qualche libro, rasoi e specchi per radersi, perfino alcuni strumenti musicali alquanto malridotti. D’istinto ti interroghi su chi li abbia usati. Oggi si fa fatica a pensare che anche la musica, quella imposta dai carnefici oppure quella di nascosto composta ed eseguita, potesse trovare un posto nella giornata degli internati. In realtà, tutto ciò che si vede rivela quanto fosse importante, per i reclusi, custodire gelosamente anche solo una foto, una lettera o qualche oggetto della propria vita di prima, sottratto non senza grave rischio al controllo degli aguzzini.

Sono anche visibili strumenti di tortura, ma si nota una certa attenzione a non mostrare oggetti o foto che possano descrivere tutto l’orrore della violenza inferta ai prigionieri. Il visitatore qui è lasciato solo, unicamente esposto alle sue emozioni, alle proprie riflessioni, ai tanti e troppi pensieri che si affastellano di fronte a un inimmaginabile crescendo di crudeltà e follia criminale. D’altronde è poi quanto si acquisisce da una visita a questi infausti luoghi della memoria. Ed è ciò, a ben vedere, che fa la differenza rispetto alla sola lettura di un libro di storia, o all’ascolto di testimonianze e alla visione di un documentario.

Delle baracche ne sono rimaste soltanto due. In realtà sono state ricostruite, con i bassi tavolati a castello, per dare atto della ristrettezza degli spazi e della costrizione inflessibilmente imposta.  Al limite del campo, oltre le baracche, i forni crematori. A venti minuti dall’Oktoberfest.

Il cimitero di Dàchau, oltre che luogo di sepoltura, è anche un parco che si estende su un vasto terreno ondulato, dove si alternano radure e fitte macchie di alberi secolari e imponenti conifere. Da un’altura di poco più elevata delle altre si scorge una distesa di centinaia e centinaia di cippi di granito ordinatamente disposti a ventaglio. Qui trovano riposo 1312 prigionieri del lager deceduti agli inizi delle marce della morte e poco dopo la liberazione, le cui salme non sono mai state reclamate e rimpatriate nei paesi d’origine. Le ultime vittime del campo. Di oltre quarantunomila altri compagni di sventura, “passati per il camino” a venti minuti dall’Oktoberfest, non è rimasta che cenere.

Quando esci dal lager e ti avvicini all’abitato è difficile non chiederti se, anche tra i civili, ancora è in vita chi ha visto e condiviso. Chi sapeva, “chi non poteva non sapere” mentre a venti chilometri da qui scolava Maßkrüge di Märzen? È una delle domande che anche Primo Levi si pose sino alla fine. Quante famiglie di questi luoghi hanno avuto parenti che ne hanno tratto lavoro o benefici? D’altronde la stessa comunità locale approvò la realizzazione del lager per giovarsi delle ricadute positive che ne sarebbero derivate in un difficile tempo di crisi. Ma noi cosa avremmo fatto? Avremmo avuto la forza di esercitare il diritto-dovere di resistere alla tirannia? Anche oggi, come allora, ci contagia la «zona grigia». Indro Montanelli, nel prendere impudentemente le difese di Priebke, anni fa sostenne che alle condizioni date non si poteva chiedere a nessuno di esporsi come eroe per poi fare la fine d’un martire… 

Conviene visitare da soli il lager di Dàchau, se non si vuole lasciarsi distrarre dalla necessità di lenire la sofferenza di eventuali accompagnatori alla vista di tanta ferocia e squallore. Dopo questa esperienza fai fatica a pensare alla “banalità del male” con riferimento ad azioni e comportamenti di chi ha inflitto torture, compiuto eccidi o scientificamente pianificato genocidi. Quando Hannah Arendt ha coniato questa espressione aveva da poco assistito alla grigia e sconcertante autodifesa di Eichmann nel processo di Gerusalemme che ne decretò la condanna. Ma dalla visita al lager di Dàchau la sensazione che più ti rimane impressa non è certo quella della banalità del male. Capisci che la levità delle parole usate era soltanto mirata a suscitare in noi una reazione morale al delitto di cieca e condiscendente obbedienza. Ma ben più inquietante resta in te la consapevolezza del rischio di un’assuefazione al male, spesso presente in radice anche in molti gesti e comportamenti della vita quotidiana. A ben vedere è la percezione di una pervasività e prossimità del male: la possibilità, mai superata, che anche nella routine di una vita “normale” possano a poco a poco trovare giustificazione azioni che dapprima limitano e poi negano la vita, che sottraggono il diritto di esistere, sino a pensare di potere infliggere le peggiori sofferenze ad altri esseri umani percepiti come nemici da distruggere o reietti da estirpare. Con la stessa noncuranza con cui si prosciuga un litro virgola zero sessantanove di birra. Lager.

 

A.N.P.I.        Comitato di Sezione “R. Martorelli” – Torino                    27 gennaio 2022

 

 

 

Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata per commemorare le vittime dell’Olocausto.

Un albero bianco per non dimenticare i treni verso i lager.

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