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21 Gen
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2009 Monumento ai caduti della Barca

Sabato 25 aprile

Cerimonia al Monumento ai Caduti di Strada Settimo Lungo Stura Lazio (zona Barca), alla presenza delle Autorità cittadine e la partecipazione del gruppo musicale e strumentale i “100 e ….1”

 

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20 Gen
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2009 Circolo Risorgimento “Premiazione trofeo Renato Martorelli”

Sabat0 25 aprile

Presso il Circolo Risorgimento di Via Poggio 16, consegna della tessera ad Honorem e premiazione gara di bocce, con la partecipazione del gruppo musicale e strumentale i “100 e ….1”

 

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20 Gen
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2008 Monumento ai caduti della Barca “Inaugurazione giardino Franco Milone”

Venerdì 25 aprile

Cerimonia al Monumento ai Caduti di Strada Settimo Lungo Stura Lazio (zona Barca), intitolazione del parco a l partigiano Franco Milone a cura della Presidenza del Consiglio Comunale. Con la partecipazione del gruppo vocale e strumentale i “100 e …1”

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27 Dic
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Materiale lavoro seminariale con gli insegnanti e l’ANPI “Martorelli”

Relazione sulla domanda formativa espressa dagli insegnanti

che hanno partecipato agli incontri organizzati dall’ANPI  – Sezione ”Renato Martorelli” – il 17 e 24 novembre 2016

[Sintesi a cura di Fiorenzo Girotti]

 

La sezione ANPI “R. Martorelli” nella primavera del corrente anno si è assunta l’impegno di non proporre un nuovo programma di iniziative per le scuole senza aver prima costruito, con gli insegnanti, un momento di valutazione seminariale delle attività sin qui realizzate.

 

Ai due incontri e a un’indagine tramite questionario hanno preso parte 19 insegnanti di scuola primaria (Abba, Cena, Frank, Gabelli, Levi, Novaro, Pestalozzi); 12 di scuola secondaria di primo grado (Bobbio, Viotti, Martiri del Martinetto); 9 di scuola secondaria di secondo grado (IPS Beccari, LSS G. Bruno); 4 di centri di formazione professionale (CFP Rebaudengo, Forte Chance,  Scuole Tecniche San Carlo). Sono stati inoltre contattati e hanno espresso interesse alle nostre iniziative dirigenti scolastici e docenti di storia e scienze umane di alcuni altri istituti di istruzione superiore.

I questionari restituiti compilati sono ad oggi 44. Per semplicità e chiarezza, si ritiene opportuno dare notizia soltanto per punti dei temi posti in discussione.

 

  • Il nostro obiettivo è costruire insieme un programma realmente condiviso, secondo un percorso che nella lettera d’invito è stato chiaramente esplicitato. Vogliamo capire ciò che è stato fatto e quale giudizio esprimiamo dell’interesse suscitato negli allievi. Vogliamo capire ciò che resta da fare e ciò che insieme si potrà organizzare per il prossimo anno. Non da ultimo, vogliamo capire quali sono le risorse e i sussidi didattici sui quali possiamo e potremo contare. Sul punto intendiamo da subito ricordare che il Presidente della Sezione, il partigiano Palmiro Gonzato, come comunicato nella sua introduzione, ha messo a disposizione delle scuole, che ancora non ne hanno potuto apprezzare tutta l’utilità, alcuni cofanetti approntati dall’ANPI nazionale in occasione del Settantesimo della Liberazione. Si tratta di strumenti didattici sicuramente efficaci non solo per i contenuti, ma anche per l’approccio critico e innovativo.
  • La proposta di confronto alla quale vi invitiamo si muove nel solco di un lavoro ideato da Francesco Vercillo. Il modo migliore di ricordarlo, come dirigente e come amico, e di riprendere un percorso da lui stesso tracciato e sollecitato fino a pochi giorni prima di lasciarci.
  • Nella Provincia di Torino, questa Sezione dell’ANPI è quella con il più elevato numero di insegnanti iscritti o che, anche senza tessera, collaborano attivamente con l’ANPI per la buona riuscita delle iniziative dedicate alle scuole. Sono oltre una novantina, volendo tener conto anche di quanti di recente si sono ritirati dall’insegnamento attivo[1]. L’ANPI si conferma pertanto, per una sempre più ampia comunità professionale, come importante riferimento per l’elaborazione e la sperimentazione di una nuova pedagogia democratica. Probabilmente in ciò surrogando anche un più debole radicamento di organizzazioni sindacali e politiche che sino a ieri esprimevano una robusta vocazione pedagogica. Di costituire un riferimento significativo ci sentiamo naturalmente orgogliosi, ma ne avvertiamo anche tutta la responsabilità. Il protocollo stipulato con il MIUR nel 2014, che riconosce nell’ANPI un interlocutore privilegiato per la didattica della Resistenza e della storia contemporanea nelle istituzioni scolastiche, è un riconoscimento di straordinaria importanza per la nostra associazione, ma costituisce anche un traguardo oltremodo impegnativo per tutti noi.
  • Nel primo incontro, di giovedì 17 novembre, non è mancato chi ha sottolineato che l’elevata partecipazione degli insegnanti è il risultato – anche o soprattutto – dell’impegno decennale di istituzioni e associazioni particolarmente mobilitate in quartieri che – come la Barriera di Milano, Il Regio Parco e la Barca – sono caratterizzati da una lunga storia di impegno sociale e civile sui valori democratici [N. Del vento; M.G. Mazza]. Né va dimenticato tutto l’impegno di chi, attraverso il tesseramento, ha costruito solide relazioni di collaborazione con le scuole [unanime, a questo proposito, è il riconoscimento dell’impegno di colleghi davvero infaticabili, come Anna Palermo]. Ma dai questionari filtra anche un’altra chiave di lettura, di certo non in disaccordo con le precedenti. Emerge infatti la convinzione, quanto mai diffusa tra tanti nostri amici e colleghi, della centralità di un compito educativo sempre più pressante e irrinunciabile: fare sì che i nostri ragazzi, pur in contesti nuovi e in forme del tutto trasformate, dispongano (oggi più di ieri) dei migliori strumenti critici per essere protagonisti e non figuranti; per sapere ancora distinguere valori e disvalori al fine di operare scelte di campo capaci di incidere non soltanto sulle proprie esistenze ma anche sulla qualità della vita democratica del proprio Paese.
  • Da molti interventi è confermata tutta la validità di un approccio che vede al primo posto la ricerca di connessioni tra nomi, luoghi e date di immediato riscontro, per gli allievi, nella stessa toponomastica del territorio in cui è ubicata la propria scuola[2]. Il quartiere – com’è stato osservato – può diventare allora l’archivio materiale cui attingere per un percorso di ricerca (a cominciare dalla scuola elementare, dal momento che i nuovi programmi di storia escludono ormai  persino le quinte da una trattazione della vicenda del Novecento). Tale ricerca può suggerire la costruzione in loco di percorsi della memoria specifici, che comunque potrebbero essere ancor meglio allestiti attingendo agli archivi digitalizzati già posti in essere dall’Istoreto e, ove richiesto, con l’assistenza di personale competente (ricercatori, bibliotecari e archivisti).
  • È opinione condivisa che all’identificazione emotiva, indotta dalle testimonianze dirette di ex partigiani e/o dalla partecipazione a commemorazioni, debbano far seguito momenti di riflessione e approfondimento, opportunamente attrezzati e accompagnati dagli insegnanti. Diverse sono le forme e i livelli di consapevolezza. Ma i ragazzi e i giovani devono essere indotti a interrogarsi e ad avere idee proprie. Solo allora potranno imparare ad “avere rispetto delle proprie idee” [nelle parole di Augusto Monti, poco prima di essere tradotto in carcere].
  • Ne consegue che non si deve temere la complessità, forti del riferimento alla storiografia più recente e avvertita (E. Manera). E neppure è da temere la pluralità delle chiavi di lettura possibili, a fronte di vicende tanto dense di implicazioni. Anche quando ciò comporti di rispondere alle domande degli allievi suggerendo e strutturando nuovi percorsi di ricerca (individuale o di gruppo; di classe o di istituto). Una condizione di efficacia del nostro lavoro educativo è che i ragazzi diventino protagonisti, con una qualche immediatezza e concretezza, quantomeno di un pezzo di strada di questa ricerca (A. Salpietro). Devono essere loro a ridare vita e voce ai nomi e alle fotografie appena viste sulle targhe commemorative. Ma per questo è importante che gli educatori si astengano all’inizio da ogni atteggiamento giudicante. Il giudizio di valore deve rimanere responsabilità, al termine di un percorso, di chi ha compiuto un rigoroso riscontro dei fatti, giungendo a scoprire “quanto è accaduto di vivere tanti anni fa, ma in un’epoca non poi così remota, a ragazzi che erano quasi loro coetanei”.
  • Anche nell’affrontare questi temi con i ragazzi più grandi – che più di altri sembrano esposti a una reazione di rigetto ormai diffusa in vasti settori dell’opinione pubblica – è stato osservato che il primo e più efficace punto di contatto, per avvicinarli con interesse a questi temi, sta nell’indurli a riflettere sul fatto che esperienze di tale impatto esistenziale sono state vissute da loro coetanei. Giovani che dopo decenni di dittatura son stati costretti a scelte che mettevano in gioco la vita stessa, nonostante una sistematica diseducazione che, con ogni forma di manipolazione, aveva cercato di privarli di senso critico e di strumenti di valutazione. È partendo dalle vicende biografiche, dalle singole storie, che si potrà poi giungere a comprendere anche un quadro più vasto fatto di assetti politici, militari e istituzionali. Mentre assai difficilmente si otterranno buoni risultati con il percorso inverso, che ciò nonostante resta ancora quello più frequentato (sul punto rinvio al testo di Enrico Manera, reso disponibile in allegato).
  • In un percorso di avvicinamento dalle piccole storie alla grande Storia, uno strumento non meno utile delle testimonianze e delle interviste (come pure dei diari, delle lettere e dei documenti d’archivio) sono i romanzi, i racconti e i film d’autore. Dobbiamo ammettere che è anche attraverso di essi che ci si è avvicinati a uno sguardo più vero e credibile sulla vicenda resistenziale, decenni prima che storici e scienziati sociali giungessero “secondo verità e giustizia”a una visione realistica e non celebrativa. Per una rassegna della narrativa, di prima e  seconda generazione, come pure della filmografia più interessante, rinvio al saggio di Davide Tabor (in allegato).
  • Generalizzata è la convinzione che s’imponga un modo diverso di insegnare la storia,con un uno sguardo non eurocentrico e non limitato a un quadro nazionale. Tanto più ove si consideri la crescente presenza di allievi cresciuti in famiglie immigrate e portatrici delle più diverse culture.
  • Allo stesso modo è diffusa la consapevolezza di dover sperimentare nuovi approcci e nuove metodologie. Nella maggior parte dei casi nell’affrontare i temi dell’antifascismo e della Lotta di Liberazione non si adottano modalità diverse dalle lezioni frontali, ancorché accuratamente preparate con ricorso a saggi e documenti. Nella metà dei casi si è però anche avuto modo di sperimentare tutta l’efficacia delle testimonianze in aula dei diretti protagonisti. Non meno numerosi sono d’altronde gli insegnanti che riconoscono l’utilità di documenti e strumenti audiovisivi per surrogare la presenza e il formidabile ruolo educativo fin qui svolto dai ‘testimoni viventi’.
  • Vero è che “un ipertesto, per quanto ben costruito, ha un ben scarso appeal per dei ‘nativi digitali’. Tutti i ragazzi oggi viaggiano in internet, dove e come vogliono, senza un particolare bisogno di solerti accompagnatori al fianco”. Ma compito degli educatori è proprio quello di indurre a riflettere ponendo le domande giuste, sollecitando  al tempo stesso gli allievi a cercare serie risposte, appoggiate per quanto possibile a rigorose evidenze empiriche. In quattro casi su dieci, abbiamo in effetti buoni elementi per rilevare la costruzione di autentici percorsi di ricerca, sia a livello individuale sia di gruppo. E in tre casi su dieci registriamo che sono state realizzate attività performative di natura espressiva o creativa, particolarmente coinvolgenti e assai apprezzate, soprattutto dagli adolescenti (come la preparazione di concerti, ricerche sui canti della Resistenza e sulle colonne sonore dell’epoca, drammatizzazioni, graphic novel).
  • Siamo tutti consapevoli che la possibilità di sviluppare adeguatamente questi temi non dipende soltanto dalla volontà o dalle capacità dell’insegnante. Le potenzialità e le dinamiche del gruppo classe, la disponibilità dei colleghi, la sensibilità dei dirigenti e il clima di opinione che si crea all’interno della scuola sono non meno importanti di una soggettiva disponibilità all’impegno. Allo stesso modo, sappiamo bene che “le maestre hanno tante cose da fare e che la nostra utenza è tra le più difficili”. Ma deve essere ben chiaro che l’ANPI non chiede di fare delle cose in più:  la nostra aspirazione è di essere d’aiuto a realizzare anche solo poche cose, ma unicamente quelle che veramente servono e nel modo più corretto ed efficace.
  • In questo senso riteniamo che lo spirito della nostra iniziativa sia stato ben compreso quando, nel questionario, è stato chiesto di indicare quali temi di approfondimento si ritiene più utile sviluppare nel lavoro fin qui programmato o ancora in corso di ideazione. Tra i percorsi di approfondimento segnalati dai docenti spiccano due temi: a) la nascita, le matrici ideali e i dibattiti sui diritti fondamentali della Costituzione (in 4 casi su 10); b) il passaggio dall’antifascismo alla Resistenza, analizzando il contesto, le condizioni di necessità, i vincoli e i soggettivi gradi di libertà di chi scelse di combattere il nazifascismo (sono ancora 4 risposte su 10, che auspicano in qualche caso l’accesso a fonti d’archivio). Un più limitato gruppo mira a un approfondimento in tema di diritti e migrazioni, ieri e oggi. E in tre casi su dieci si sottolinea la volontà di approfondire “non tanto il contributo, quanto il ruolo fondamentale delle donne nella lotta di resistenza”.
  • Da ultimo si chiedeva quali attività di supporto l’insegnante ritenga più utili siano garantite dall’ANPI o dalle altre associazioni inserite nell’offerta formativa del Polo del ‘900. Come prevedibile, al primo posto è stata segnalata l’opportunità di organizzare interviste e ascoltare le testimonianze dei diretti protagonisti (in 9 casi su 10). Ma più realisticamente, in ben 7 casi su 10 si sottolinea anche tutta l’utilità di una elaborazione e messa a disposizione di film, ipertesti e materiali audiovisivi. Seguono, per interesse, l’allestimento di laboratori (affiancati da esperti) che favoriscano il coinvolgimento attivo degli allievi (è quanto richiedono poco meno della metà dei rispondenti). A seguire vengono la preparazione di schede e materiali didattici, le attività di ricerca su argomenti specifici e, in egual misura, l’organizzazione di lezioni per i docenti su temi opportunamente concordati (ne segnala l’esigenza circa un quarto dei rispondenti).

 

Alla luce delle indicazioni ricevute, la sezione ANPI Martorelli si impegna a costruire, nei tempi più brevi, un calendario di attività e manifestazioni che corrisponda alle attese degli insegnanti, riproponendo per le date più significative (27 gennaio, 8 marzo e 25 aprile) tutte le iniziative che hanno sin qui visto un’ampia partecipazione. Una nuova opportunità ci è offerta, per il Giorno della Memoria, dalla possibilità di sviluppare con i ragazzi uno specifico lavoro sulla deportazione nella totalità dei suoi aspetti, e in primo luogo per motivi razziali e politici, con un puntuale riscontro di storie da non dimenticare. In tal senso riteniamo sia da assumere la proposta di collaborazione avanzata da Elena Scarabello (Presidente dell’Associazione Culturale Le Oasi, che ne ha promosso il progetto e il relativo concorso di idee); proposta, questa, efficacemente integrata dalle considerazioni di Susanna Maruffi, Presidente provinciale dell’ANED. Si sottolinea altresì tutto l’impegno della Sezione Martorelli a svolgere un ruolo di tramite con l’ISTORETO (archivisti e ricercatori), con il Museo diffuso della Resistenza e con le associazioni del Polo del ‘900 impegnate in attività formative di sicuro interesse per i nostri insegnanti.

A fronte di eventuali altre proposte didattiche, è appena il caso di sottolineare che il ruolo dell’ANPI non è, in quanto tale, quello di un’agenzia formativa in competizione con le altre per occupare spazi di didattica qualificata nel proprio settore di interessi. Deve essere chiaro che l’associazione non intende in alcun modo surrogare o sostituire il ruolo degli insegnanti. L’ANPI promuove iniziative orientate a mantenere viva la Memoria, prospetta collaborazione e assistenza attraverso l’indicazione di percorsi e strumenti, ma non offre lezioni in aula di propri esperti, né si propone come agenzia viaggi, pur promuovendo visite nei luoghi più significativi della Resistenza.

Tra gli obiettivi a breve, resta da segnalare l’impegno della Sezione a costruire un nuovo sito, nel cui ambito collocare un’area di archivio della didattica su antifascismo, Resistenza e Costituzione realizzata fino ad oggi nelle scuole del nostro territorio. Lo scopo non è tanto di conservare, ma in primo luogo quello di rendere noti e accessibili, nel più agevole dei modi, i lavori sin qui creati attraverso l’impegno attivo di insegnanti e allievi. Nella stessa area potranno trovare collocazione materiali d’archivio e mostre, d’ora in poi accessibili in formato digitale, realizzate dalla Sezione nel corso degli anni più recenti, nonché materiali utili all’ideazione di nuovi progetti e sperimentazioni.

Torino, 15 dicembre 2016

[1] Tra i 44 docenti che rispondono al questionario, i tesserati all’Anpi per il corrente anno sono un quarto.

[2] Circa la metà dei rispondenti, con netta prevalenza di elementari e medie, ha collaborato o partecipato, negli ultimi tre anni scolastici, a iniziative riconducibili a tale approccio, di norma con il coinvolgimento di più classi del proprio istituto. Prevalgono in ogni caso le commemorazioni presso lapidi, cippi, ‘pietre d’inciampo’ in ambito locale e/o cittadino. Ma solo in tre casi su dieci si registra la costruzione di veri e propri percorsi della memoria per ricordare i protagonisti della Resistenza nell’ambito del proprio quartiere. Di poco superiore il numero dei docenti che hanno accompagnato le proprie classi a visitare luoghi significativi della Resistenza. Ma occorre qui tener conto anche del turnover delle classi in carico agli intervistati. Le classi coinvolte sono, perlopiù, le quinte elementari e le terze medie.

 

Enrico Manera

 

Nonostante tutto. Insegnare la Resistenza, tra didattica e uso pubblico della storia

 

in Historia magistra, rivista di storia critica, n. 20, 2016, pp. 77 – 89.

 

Una volta al secolo, qualcosa di serio e di pulito può accadere anche in questo Paese”.
Giorgio. Agosti

 

La storia della Resistenza presenta complessità e problematicità derivanti dal fatto che il tema costituisce anche un dispositivo etico e politico di sapere, di immaginazione culturale e di mobilitazione delle coscienze, incentrato su valori e simboli di una grande narrazione collettiva che avrebbe dovuto essere alla base dell’identità dell’Italia repubblicana. A lungo infatti è mancata la volontà politica di costruirne una memoria pubblica attraverso, ad esempio, l’istituzione di un museo nazionale dedicato alla Resistenza e alla deportazione. Le ragioni di tale scelta vanno cercate principalmente nell’esclusione dalle posizioni di governo dei partiti che più avevano appoggiato la Resistenza e, nel clima della guerra fredda, nell’avvio immediato di una politica di radicale archiviazione del passato che si osserva già dal 1947. Inoltre la spaccatura geografica del paese tra il 1943 e il 1945 e il trauma della “guerra civile” hanno contribuito ad aprire profondi conflitti di memoria non ancora sanati (Alessandrone Perona, 1998, 2012; Rusconi, 1995; Berruti, Maida, 2005) dando vita a «storie separate, memorie inconciliate e quindi modi di identificazione collettiva divergenti» (Rusconi, 1997, p. 48).

Come in ogni ambito dell’eredità della seconda guerra mondiale, è sempre più urgente la questione del congedo dei testimoni e della presenza di generazioni che non si sentono coinvolte da quel passaggio epocale: qui si pongono i problemi della partita tra memoria e oblio e del lavoro di conservazione del ricordo. Negli anni Novanta del Novecento, infatti, hanno raggiunto l’età adulta i primi cittadini italiani i cui genitori non hanno vissuto direttamente il fascismo, l’antifascismo, la guerra o la deportazione; contestualmente i nati nel 2000 entrano quest’anno nel ciclo educativo di scuola superiore.

Tutto ciò si inserisce in un più ampio discorso: come ha scritto Hobsbawm (1996) un fenomeno tipico del Novecento è «la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti». In questo senso, «la maggior parte delle persone, in particolare i giovani, vivrebbe oggi in un eterno presente, in cui manca qualsiasi rapporto con il passato storico che permetta di comprende quello che capita di vivere» (Belpoliti, 2015, p. 7); su questo si innesta l’inevitabile semplificazione della storia insegnata nella scuola di massa, a detta di molti caratterizzata da rarefazione e impoverimento concettuale in relazione a una “memoria giovanile” in cui spesso dominano gli aspetti espressivi, emotivi, estetizzanti. Senza voler essere così pessimisti, ma anche senza voler accettare la semplificatoria definizione di “nativi digitali” (Manera e Portincasa, 2015), si tratta di fare propria la consapevolezza di un nuovo paesaggio, se non cognitivo, mentale e di immaginario.

Il che è tanto significativo nel caso della storia della Resistenza: nei venti densissimi mesi tra il 1943 e il 1945 si concentra una potente discontinuità nella storia italiana che ha il suo prima nel fascismo e nella guerra e il suo dopo nella storia della Repubblica antifascista: per questo motivo, oltre ai diversi ambiti politici, sociali e culturali in cui si dispiega la storia del processo di Liberazione, la Resistenza è in termini genealogici anche il progetto incompiuto di un mito fondativo della Repubblica, di cui ha continuato a essere il reagente della politica per settant’anni (Agosti e Colombini, 2012; Focardi, 2005).

 

Il post-antifascismo

 

Non è questa la sede per affrontare un complesso dibattito storiografico-politico: in estrema sintesi, si può constatare come un tenace revisionismo, attraverso i mass (e social) media e indipendentemente dalla produzione scientifica, si sia fatto senso comune nella rappresentazione pubblica di largo “consumo” e nelle (sotto)culture degli studenti. Screditare la Resistenza, oggi come ieri, ha il significato di rivalutare il fascismo, in alcuni suoi aspetti se non in toto, e le sue eredità vere o presunte; in termini generali ha avuto l’effetto di destituire di legittimità e credibilità l’intero assetto della cosiddetta “prima” Repubblica considerata naturaliter antifascista poiché nata in seguito alla lotta di Liberazione. Il tutto al servizio di larghe convergenze di interessi politico-culturali e al fine di delineare scenari politici in via di definizione (Turi, 2013).

Mentre la ricerca storiografica ha raggiunto livelli altissimi di documentazione e di riflessione etico-politica, come il fondamentale saggio-capolavoro di Claudio Pavone, Una guerra civile (Pavone, 1991; Bobbio e Pavone, 2015) nell’arena dell’uso pubblico della storia sono andati in scena i caricaturali attacchi, di volta in volta feroci e grotteschi, dell’anti-antifascismo, delineando un quadro che è stato definito di post-antifascismo: come sintetizza Sergio Luzzatto si tratta di «scongiurare il pericolo che nei manuali di storia […] i nostri figli si trovino un racconto ancora più falso di quello che noi vi leggemmo a suo tempo: non più il quadretto ideografico di un’Italia tricolore che dopo l’8 settembre compattamente si trova a combattere la propria guerra di liberazione nazionale, ma la rappresentazione capziosa di un’Italia quasi integralmente grigia dove estremisti rossi e neri si massacrano gli uni con gli altri in nome di parole d’ordine ugualmente becere, di valori ugualmente ignobili, di valori ugualmente mortuari»  (Luzzatto, 2004, p. 40).

Negli ultimi dieci anni la situazione non è variata, arricchendosi di elementi di profondità e di complessità da un lato[1] e di trivializzazione dall’altro: guardato attraverso gli occhi del calendario civile «il 25 aprile si conferma come una partita dove non c’è la storia, bensì l’uso politico del passato» (Bidussa, 2015).

 

A cosa “serve” la storia che insegniamo?

 

Fabio Fiore ha messo in luce come nelle linee guida ministeriali dell’ultimo quindicennio si possa osservare un’oscillazione nelle finalità dell’insegnamento della storia «tra eurocentrismo identitario e mondialismo cognitivo»: da un lato si insiste «sulla storia come identità» e sulle «“radici cristiane d’Europa” (da Moratti a Gelmini)», dall’altro si intende «la storia come conoscenza e metodologia in prospettiva mondiale (prima con Berlinguer e poi con Fioroni)»; l’impressione di chi scrive è che la prima prospettiva sia maggiormente nelle aule, se non altro per la sua prestazione identitaria in senso occidental-europeo-nazionale e per la sua tendenziale continuità con la struttura dell’impostazione crociano-gentiliana che ancora permea l’insegnamento.

Per la storia del secondo conflitto mondiale il discorso si lega inoltre alla diffusione, nel senso comune e nella mediasfera, di una sensibilità post-totalitaria a vocazione europeista e a una definizione del Novecento come secolo della violenza, che ha marginalizzato gli aspetti di politicizzazione, rivoluzione, scontro e di guerra civile. In questo senso è largamente diffuso oggi un «anacronismo» che proietta «le categorie della democrazia liberale contemporanea» nel passato tra le due guerre mondiali, con l’effetto però di rendere le norme de-storificate e non di vederle come prodotti storici, proprie di quei contesti. Tutto ciò, anche se i suoi fini etico-educativi sono condivisibili, finisce per impedire la comprensione della logica e delle dinamiche «che si impongono fatalmente a tutti i combattenti, anche a quelli che hanno impugnato le armi per lottare contro il fascismo, per difendere e restaurare la democrazia» (Traverso, 2008:10; cfr. Dogliani, 2001; Traverso, 2006; Judt, 2007, pp. 989-1023; Gordon, 2013; Consonni, 2015; Cooke, 2015).

In Italia una sorta di interdetto sul tema della violenza si deve inoltre alla stagione del terrorismo e alla centralità assegnata allo status di vittima, con il risultato anche in questo caso di una de-politicizzazione delle vicende storiche (De Luna, 2011; Giglioli, 2014).

Poiché nella scuola italiana la storia del Novecento è sempre elemento fondamentale dell’“educazione civica” (che oggi va sotto la denominazione di Cittadinanza e Costituzione), è inoltre possibile osservare a scuola quello che è avvenuto a un livello più ampio, e cioè come «la Resistenza venga via via assorbita e rimpiazzata dalla Shoah e dal tema dei diritti umani e come l’istituzione del “Giorno della memoria” sancisca tale sostituzione» (Fiore, 2012, p. 142; cfr. Ventura, 1995). All’interno del dispositivo didattico e non senza semplificazioni retorico-monumentali, il “posto” prima assegnato alla Resistenza è ora tenuto dalla Shoah. In termini di fenomenologia della cultura la figura dell’eroe, il combattente in armi, ha ceduto il ruolo principale nella narrazione alla vittima: la dimensione attivistica e politica, un tempo sottolineata, viene così sostituita da una figura “passiva” e legata alla sacralizzazione dello status di vittima innocente, a maggior ragione nel caso delle deportazioni e sterminio a sfondo razziale.

In termini educativi si può osservare dunque che, all’insistenza sulla spinta valoriale singola e collettiva all’interno di progetti politici democratici, patriottici, nazionali e/o di emancipazione e trasformazione sociale – tipica dei primi decenni repubblicani –  è seguita in tempi più recenti l’enfasi sulla dimensione umanitaria e sulla condanna della violenza. In tal senso, mentre in passato erano maggiormente presenti i temi dell’utopia e dell’impegno civile, dal punto di vista di chi scrive è possibile osservare come negli ultimi anni si sia diffusa, nella scuola superiore in particolare, una proposta di riflessione su argomenti come la «banalità del male» (in Arendt) e la «zona grigia» (in Levi): se prendiamo queste dinamiche come un marcatore degli spostamenti degli obiettivi educativi dell’insegnamento della storia contemporanea, la riflessione politica sull’edificazione di una società più giusta ed egualitaria appare sostituita da quella sulle modalità in cui vivere all’interno di una società meno violenta e su come sottrarsi alle forme di conformismo e di spossessamento progressivo dei diritti.

Se lo spazio etico della storia del Novecento viene assegnato alla storia della deportazione, cosa succede alla storia della Resistenza? Per quello che può valere date le sue caratteristiche di circostanza, il tema storico dell’esame di stato 2014-15, cioè la maturità appena trascorsa, può offrire delle indicazioni sul modo istituzionale di intenderla[2]: la traccia, in estrema sintesi, chiede di riflettere sulla Resistenza, illustrandone le «fasi salienti» e il «significato morale e civile», attraverso il «testamento spirituale» di Dardano Fenulli, un caduto militare nato nel 1889, insorto dopo l’8 settembre e morto tragicamente come martire alle Fosse Ardeatine. A una lettura esperta, la traccia mostra l’idea sottintesa della Resistenza come «secondo Risorgimento», secondo un cliché costruito in particolare dal 1955 dalla storiografia moderata e filogovernativa (Peli, 2012, pp. 26-28;  cfr. anche Cooke, 2012), con una focalizzazione sull’amor di patria di ascendenza monarchica e con intonazione di tipo religioso. Tra tutte le possibili declinazioni di un tema, la traccia dell’esame di Stato del Settantesimo anniversario della Liberazione propone una storia nazionale che è mitologia patriottica, unanimistica e consensuale, confezionata con l’idea di non scontentare nessuno e non di sottolineare gli aspetti di emancipazione, trasformazione e rivoluzione sociale della Resistenza e della sua eredità.

 

Raccontare ancora la storia della Resistenza

 

La storia che pratichiamo a scuola, anche a causa dei tempi curricolari sempre più ridotti, è spesso sintesi, narrazione di altre narrazioni più o meno vaste, che implicano un «montaggio – non scientifico – del sapere», o «una retorica del tempo esplorato» (Didi-Hubermann, 2007, p. 37): con la Resistenza abbiamo a che fare con una storia che si vuole “nostra” in quanto religione civile (o mito di fondazione), in maniera tale da non permettere una vera riflessione critica su problemi e risposte di uomini e donne in quel passaggio. La didattica dovrebbe invece avere un approccio apertamente “demitizzante”: prima di tutto si tratta di evitare la pedagogia scoperta e l’anticipazione retorica e monumentale della dimensione valoriale, a maggior ragione nella misura in cui gli studenti accolgono con prevenzione e sospetto, con compiacente conformismo, con emotività estetizzante a seconda dei casi, una storia vissuta come pedagogica, di cui credono di sapere già tutto e in cui immaginano che cosa i docenti si aspettino da loro.

Non giova alla comprensione una Resistenza esposta come agiografia, tanto nella versione patriottica neo-risorgimentale quanto nelle sue componenti di sinistra come “guerra di popolo”; restituire la complessità del fenomeno resistenziale significa mostrarne il radicamento nella guerra totale e ai civili avendo cura di spiegare un contesto di difficoltà estreme per la popolazione, di fame e di città bombardate, situato tra gli scioperi del Nord, lo sbarco alleato, l’occupazione tedesca, le zone di montagna rastrellate, il controllo poliziesco nelle città e la guerra civile. È in questo scenario che si situa il passaggio dalle minoranze dell’antifascismo alle decine di migliaia di mobilitati nella lotta partigiana. Prima che come idealtipo concettuale ed etico infatti la Resistenza nasce all’interno di concrete determinazioni storiche, entro le quali si rende comprensibile: accanto alla Resistenza «incentrata su un consapevole progetto politico-militare, esiste una Resistenza più diffusa, multiforme e mutevole che ha le sue radici nella stanchezza, nel rifiuto della guerra e che si manifesta nella renitenza alle nuove leve militari e al lavoro obbligatorio per gli “occupanti-alleati” tedeschi, nelle mille forme di autosottrazione e di mancata collaborazione» (Peli, 2004, p. 6). Si tratta allora di insegnare una Resistenza con e senza armi, all’interno di una specifica storia sociale del territorio con le sue peculiarità e inseparabile dalla storia delle deportazioni per motivi politici e razziali, in cui ci sono le donne e il mondo del lavoro.

Un’attenzione particolare va riservata agli aspetti più problematici: non si deve avere timore di mostrare il rapporto anche difficile e conflittuale tra le diverse anime resistenziali, a partire dalla solo parziale convergenza di obiettivi e dalle differenti strategie politico militari attuate in vista della Liberazione, mostrando al contempo gli aspetti di mediazione politica che saranno poi alla base della Costituente e della Repubblica. Analogamente, una versione reticente e irenistica del periodo 1943-45 impedisce la comprensione dei conflitti irrisolti che attraversano la Repubblica: al di fuori degli addetti ai lavori, la validità euristica e storiografica della “guerra civile” tarda a essere riconosciuta, in quanto categoria molto usata dalla destra filofascista, al punto che si è evitato di tematizzarla per timore di una “parificazione” etica a somma zero tra Resistenza e RSI, sotto il tiro incrociato delle rivalutazioni post-defeliciane del fascismo. Si tratta dunque di individuare e mostrare gli usi strumentali, prima di tutto, e di evidenziare che se la Resistenza è tema “divisivo” è perché il paese è stato lungamente attraversato da fratture e conflittualità: politicamente, territorialmente, culturalmente e socialmente. Anzi, non si esagera se si considera che la Liberazione nel suo esito repubblicano e democratico è anche il tentativo riuscito di porre fine alla guerra civile all’interno di un nuovo quadro politico sociale che si configura deliberatamente come un rovesciamento del ventennio precedente.

Per aggirare le tante trappole che costellano l’insegnamento antiretorico ed efficace della Resistenza risulta felice la scelta di «mettere al centro della nostra riflessione le persone concrete, preoccupandosi prevalentemente di uomini e donne, di ciò che hanno concretamente fatto», «scavare negli atti, descrivere che cosa si fece, rintracciare i motivi e far emergere i sentimenti di chi agì» (Bidussa, 2015), in altri termini «ricostruire storie»: attraverso documenti e testi che nel riferirsi a soggetti, relazioni e contesti siano capaci di dare il senso della più grande storia collettiva.

Mostrare il movimento di Liberazione nel suo farsi, come guerra per bande e Resistenza diffusa, in termini didattici significa percorrere tale processo in senso costruttivista, in quanto la Resistenza come fatto sociale nasce da una dimensione pre-politica che si fa politica: le giovani generazioni attive nelle scelte del periodo 1943-45 mancavano completamente di preparazione, in modo analogo a quanto si può affermare mutatis mutandis delle nuove generazioni di studenti. Scoprire ciò che essi scoprirono è esperienza significativa[3]. La Resistenza è da questo punto di vista, nella parole dei suoi protagonisti, antiretorica vissuta ed è paradossale che, dopo, sia stata monumentalizzata e persino imbalsamata dagli aspetti retorici di lungo periodo che, sorti dalla cultura romantico-risorgimentale e passati attraverso la torsione fascista, continuano a mostrarsi nell’Italia repubblicana dal 1948 fino a oggi (Jesi, 2011). Come scrive Santo Peli  «una valutazione equilibrata della “vulgata resistenziale” di sinistra, come si viene configurando tra il 1947 e gli anni Sessanta, non dovrebbe prescindere dall’analisi del contesto nel quale viene elaborata» (Peli, 2012, p. 25), e cioè in quanto «strategia difensiva» e di «esaltazione delle legittimità» che nasce dalla fine dell’unità antifascista, dal fallimento dell’epurazione, dal clima della guerra fredda, dalla messa sotto accusa del partigianato.

La Resistenza è stata piuttosto una scuola politica, all’interno della quale si rifiutano e si “rovesciano” le logiche e le pratiche del fascismo e muovendo contro quelle si sovvertono la separazione, la gerarchia e la rigidità che il sistema fascista aveva imposto agli italiani (De Luna, 2015)[4]. Da questo punto di vista l’esperienza resistenziale è stata un laboratorio di democrazia e di confronto aperto, diretto e anche conflittuale, non senza incomprensioni, divergenze e scontri di natura organizzativa, politica, ideale e che in taluni contesti sono stati drammatici (Peli, 2004, pp. 138 e ss.). Su tutto, «molto più che lo sbocco naturale di una tradizione, la banda fu il luogo sorprendente di una acculturazione» (Luzzatto, 2004, p. 72).

Solo per fornire un dato molto concreto sulla rilevanza biografica e anagrafica, in Piemonte il 60% dei partigiani è nato tra il 1920 e il 1930, il che vuol dire avere nel corso del conflitto meno di 25 anni, l’essere cresciuti durante il regime e doversi confrontare con la scelta della renitenza all’arruolamento nella RSI che riguardava i nati tra il 1923 e il 1925 (Tabor, 2014). La condizione giovanile dello studente dell’età della post-memoria, normalmente dipinto come incolto e disinteressato, è forse a questo punto una postura cognitiva adatta a comprendere le scelte di uomini e donne di allora, per fare emergere la dimensione della moralità della violenza, che caratterizza la discussione sulle pratiche e sulla giustizia delle bande partigiane e della loro organizzazione in quanto nuovo potere in stato nascente sul territorio nazionale.

Attraverso un circolo virtuoso tra storiografia, formazione del docente e didattica, una storia sociale attenta all’incrocio di traiettorie individuali e collettive può mostrare gli esiti della dimensione politica e istituzionale (da cui invece usualmente si parte) e nello specifico dunque l’intrecciarsi di spontaneità e organizzazione, le opzioni nel dibattito tra formazioni partigiane di diverso orientamento e il processo di radicamento dei partiti politici che avrebbero fondato la Repubblica legittimandosi con la lotta armata (De Luna, 2015). In questo modo si può rendere ragione della specificità della Resistenza come la più importante mobilitazione di volontari nella storia dell’Italia, generata da scelte che nascono come moti di risposta e autolegittimazione al caos e alla violenza seguente all’’8 settembre. Un’esperienza che Pavone ha definito di “disobbedienza di massa” e che ha significato un atto di autoaffermazione e di responsabilità civile capace di ridare significato alle azioni e alle scelte dopo vent’anni di eterodirezione delle coscienze da parte di un apparato totalitario retorico, tronfio e corrotto che aveva eroso alla base il senso stesso delle istituzioni.

 

Materiali, progetti, narrazioni

 

Sono diversi i progetti rivolti agli studenti sul tema della Resistenza che connettono memoria e ricerca storica: com’è noto la produzione letteraria di argomento resistenziale ha anticipato di decenni la storiografia, il che rende particolarmente interessante un approccio a partire da romanzi, testi e rappresentazioni cinematografiche (Tabor, 2015). Una strategia consolidata consiste nel partire da lapidi, cippi, toponomastica per interrogare la vicenda dei luoghi e dei percorsi e scavare nel territorio come fosse un archivio e da lì raggiungere il vero archivio cartaceo, la memorialistica, la storiografia. Questa strategia viene realizzata attraverso attività che riguardano segni di memoria vicino alle scuole[5], tali da coniugare rigore della documentazione ed efficacia della narrazione e della scrittura, affidata agli stessi gruppi di studenti, adeguatamente formati e seguita da tutor e docenti. Documenti, memorie, storiografia diventano gli strumenti per laboratori di storia che da nomi, episodi, memorie risalgono alle biografie e al contesto inscrivendo la “grande Storia” dei manuali nello specifico del territorio locale, cittadino e regionale[6] e interrogando la memoria presente e le sue forme di comunicazione[7]. In tal senso risorse fondamentali, non solo per Torino e il Piemonte, si possono reperire sul sito dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” (Istoreto) che ospita banche dati pensate per porgere documentazione d’archivio in modo mediato a un pubblico di non esperti[8].

Tra queste, il canale tematico 70 Resistenza[9], costruito in occasione del 70° anniversario della Resistenza all’interno del progetto “I linguaggi della contemporaneità”, intende trasmettere la conoscenza dei “venti mesi” (settembre 1943 – aprile 1945), scegliendo un modello narrativo in grado di intrecciare l’utilizzo delle fonti e dei documenti con le modalità tipiche dei linguaggi di cinema, musica, fotografia, letteratura, teatro, televisione: sul canale sono disponibili una selezione ragionata di materiali conservati presso l’archivio Istoreto (fonti) e una cronologia multimediale. Sempre su Istoreto la banca dati del Partigianato piemontese[10], redatta e implementata sulla base delle ricerche degli Istituti della Resistenza del Piemonte, contiene oltre 91.000 nominativi di partigiani combattenti, patrioti e benemeriti piemontesi corredati di anagrafica, qualifica, formazioni di appartenenza e relativi periodi di servizio e dati quali eventuale decesso, cattura e deportazione. L’applicazione Lapidi della Città di Torino ai caduti per la Liberazione[11] è il risultato della digitalizzazione della banca dati delle lapidi presenti sul territorio torinese arricchita di altre informazioni iconografiche e testuali (204 schede di lapidi e di 368 schede biografiche). L’Archivio della deportazione piemontese (Adp)[12] raccorda, invece, trascrizioni e registrazioni di oltre 200 storie di donne e uomini deportati con altre testimonianze, edite o inedite, raccolte nel corso di un complesso lavoro di ricerca e contiene fonti audio-visive, scritti di memoria, articoli, interviste pubblicate o registrate, iniziative e attività realizzate dalle scuole, tesi di laurea redatte sull’argomento.

Questi sono alcuni esempi di pratiche cognitive che hanno come caratteristiche la fedeltà al dato e la spinta alla produzione di senso nuovo attorno alla storia delle Resistenza e che risultano in grado di coinvolgere gli studenti più e meglio della tradizionale lezione/interrogazione. Al tempo stesso tali pratiche sono un antidoto al precipitare della storia del movimento di Liberazione in fragile catechesi repubblicana per un Paese che sembra incapace di comprendere le circostanze della sua nascita e del suo sviluppo. Come scrive Alberto Cavaglion (2005, p. 43), «nelle condizioni in cui si svolge, la guerra partigiana in Italia non può essere se non quella che riesce a essere, senza che si debba accusarla di non essere stata quello che non poteva essere, né magnificarla per quello che non può essere stata».

 

 

 

Bibliografia

 

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Gli ultimi riscontri sui siti web sono stati effettuati il 23 gennaio 2016

[1]           Per un primo orientamento cfr. Peli, 2004; Collotti, Sandri, Sessi, 2000 e 2006; Gobetti, 2007. Si veda inoltre la bibliografia ragionata in Montanari, 2008.  Tra i libri recenti: De Luna, 2015; Peli, 2014; Luzzatto,  2013; Ponzani, 2012; Ombra, 2012; Colombara, 2012.

[2]             Il testo della prova d’esame 2015-16 Tipologia C – Tema di argomento storico può essere consultato all’indirizzo:  http://www.istruzione.it/esame_di_stato/Secondo_Ciclo/tracce_prove_scritte/2015/allegati/P000.pdf ; Per un’analisi critica e dei temi di maturità dedicati alla Resistenza a partire dal 1995 si veda:  https://avanguardiedellastoria.wordpress.com/2015/07/01/resistere-allesame-di-stato/

[3]             Per riflessioni ed esperienze didattiche sulla storia del Novecento:  http://www.novecento.org/category/pensare-la-didattica/ ; http://www.novecento.org/category/didattica-in-classe/

Sul rapporto tra didattica della storia ed empatia:  http://www.historialudens.it/didattica-della-storia.html ; http://www.istitutotrento5.it/images/test/inter_articolo_brusa_Le_dossier_Bertrand.pdf

[4]          cfr. il podcast radiofonico Giovanni De Luna racconta la Resistenza, di Tre colori del 13/06/2011, Radio Rai Tre

            http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/PublishingBlock-14f57241-ee92-431e-a752-2c8e7bdcdf83-podcast.html

[5]             Si veda nello specifico il recente progetto dedicato alle Pietre d’inciampo, le Stolpersteine torinesi, http://www.novecento.org/didattica-in-classe/le-pietre-dinciampo-a-torino-1503/ ; http://www.museodiffusotorino.it/pietredinciampotorino

[6]             Si veda per l’approccio ai luoghi di memoria: http://www.istoreto.it/torino38-45/percorsi.htm ; http://www.istoreto.it/to38-45_industria/home.htm

[7]             Si veda per questo l’iniziativa Accendi la Resistenza: http://www.istoreto.it/accendilaresistenza/index.htm

[8]             http://www.istoreto.it/?page_id=1054

[9]             http://www.70resistenza.it/index.php

[10]            http://intranet.istoreto.it/partigianato/default.asp

[11]            http://intranet.istoreto.it/lapidi/default.asp

[12]            http://www.istoreto.it/?page_id=1054

 

 

 

IL RACCONTO DELLA RESISTENZA TRA STORIA E FICTION REALTÀ E FINZIONE NELLA COMUNICAZIONE E NELLA DIDATTICA DELLA STORIA A cura di Davide Tabor

Il racconto della Resistenza tra storia e fction Realtà e funzione nella comunicazione e nella didattica della storia A cura di Davide Tabor Interventi di Cinzia Bonato Emiliano Bosi Giorgio Brandone Girolamo de Miranda Rinaldo Previtali Andrea Ripetta Emanuela Rocca Anna Strumia Davide Tabor Il volume è stato pubblicato nell’ambito di un progetto realizzato grazie al contributo della Circoscrizione 1 Centro-Crocetta della Città di Torino. © 2015 Edizioni SEB 27 [www.seb27.it] Motivé – 2 ISBN: 978-88-98670-07-9 9 Questo saggio parla della formazione della memoria della Resistenza italiana nel primo decennio del dopoguerra e si sofferma in particolare sul contributo dato dalla letteratura e dal cinema. Parla del bisogno di raccontare la guerra civile manifestato nei mesi e negli anni successivi alla Liberazione da un gruppo di intellettuali che aveva vissuto in prima persona l’esperienza partigiana: alcuni con le parole, altri con le immagini, essi si scagliarono contro le distorsioni dei racconti che cominciarono a diffondersi sul recente passato. Nella neonata Italia democratica si aprì presto la contesa pubblica sulla memoria del confitto bellico e sulle vicende dell’Italia degli ultimi vent’anni: c’era chi voleva affermare una versione agiografica della Resistenza e chi, invece, avrebbe preferito dimenticare l’intera storia del fascismo e dell’antifascismo1 . La discussione pubblica degli ultimi anni ha prodotto una falsificazione nel racconto dell’Italia di quel periodo: libri di grande successo editoriale, come quelli del giornalista Giampaolo Pansa, hanno contribuito significativamente a generare una vulgata del processo di costruzione della memoria resistenziale2 . Si sta formando un vero e proprio 1 Sulla memoria e sulle rimozioni: Angelo Del Boca, Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza, Vicenza 2010; Giovanni De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011; Filippo Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari 2005; Id., Il cattivo tedesco e il bravo italiano: la rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013; Nicola Gallerano, Le verità della storia. Scritti sull’uso pubblico del passato, Manifestolibri, Roma 1999; Michela Ponzani, L’eredità della Resistenza nell’Italia repubblicana tra retorica celebrativa e contestazione di legittimità, Olschki, Firenze 2005. 2 Com’ è noto, tale vulgata è stata alimentata e diffusa soprattutto da opere di finzione, di cui i libri del giornalista Pansa sono un esempio. Secondo questa versione, la sinistra italiana avrebbe esercitato un monopolio assoluto sulla memoria resistenziale, i cui frutti sarebbero stati la falsificazione, la manipolazione del passato e la rimozione di fatti significativi per la storia dell’Italia in guerra, per esempio le violenze partigiane. Cfr. Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, Sperling & Kupfer, Milano 2003; Id., Sconosciuto 1945, Sperling & Kupfer, Milano 2005; Id., La grande bugia, Sperling & Kupfer, Milano 2006; Id., I gendarmi della memoria, Sperling & Kupfer, Milano 2006; Il bisogno di raccontare La Resistenza nella letteratura e nel cinema neorealisti di Davide Tabor 10 senso comune storiografico sugli anni 1943-1945, che non si fonda su indagini accurate, su prove e documenti, secondo cui la sinistra italiana, e in particolare il pci, avrebbe imposto un’unica visione ideologica della guerra civile, esercitando un potere esclusivo di controllo e censura del passato: il quadro dell’Italia del dopoguerra appare così strumentalmente semplificato e i processi di definizione della memoria della Resistenza risultano totalmente decontestualizzati. Sappiamo però molto bene che questa versione della storia dell’Italia repubblicana è parziale e incompleta. Non perché i partiti della sinistra si siano disinteressati al tema, anzi: è noto che se ne occuparono approfonditamente, così come anche la storiografa, che da tempo deve fare i conti con gli stereotipi determinati dalle letture ideologiche della Resistenza. Piuttosto perché l’origine della memoria resistenziale si colloca in un contesto ben più complesso: le memorie degli italiani sul ventennio e poi sulla guerra di liberazione erano inevitabilmente divise e le tensioni politiche derivanti dal nuovo quadro nazionale e internazionale determinarono rimozioni frettolose di cui furono responsabili diversi partiti, di governo e di opposizione. Nel presente saggio verranno esaminati alcuni romanzi e flm molto famosi che la critica letteraria e cinematografca considera parte integrante del neorealismo. Essi furono scritti e girati nel primo decennio del dopoguerra da fgure importanti del mondo culturale italiano: Italo Calvino, Beppe Fenoglio, Carlo Levi, Carlo Lizzani, Francesco Maselli, Cesare Pavese, Valeria Viganò3 . Pur non raccontando la lotta di liberazione esattamente dalla stessa prospettiva, essi generarono un canone resistenziale che si oppose sia alla mitizzazione sia alla rimozione4 . Proveremo a capirne l’origine e a ricostruirne i tratti distintivi principali. La battaglia della memoria nel dopoguerra Dobbiamo anzitutto descrivere il contesto in cui le opere esaminate vennero ideate. Nel dopoguerra, i nemici di una ricostruzione aperta e critica della storia della guerra civile furono parecchi, come magistralmente seppe denunciare Italo Calvino nel 1964 Id., Il revisionista, Rizzoli, Milano 2009; Id., I vinti non dimenticano, Rizzoli, Milano 2010. Per alcune reazioni cfr. Angelo Del Boca (a cura di), La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Neri Pozza, Vicenza, 2010. 3 Ho selezionato questi autori dopo aver esaminato la produzione letteraria e cinematografca del neorealismo sulla Resistenza: ho riscontrato l’esistenza di elementi narrativi comuni, meno presenti in altre opere pur importanti della storia della letteratura e del cinema italiani. Ciò che accumuna i vari autori è il passato antifascista o partigiano. Questo saggio fa parte di una ricerca sulle rappresentazioni della Resistenza nel dopoguerra; in esso mi concentrerò su una parte soltanto delle opere neorealiste, mentre in altre sedi mi occuperò di analizzare l’intera produzione, individuando le diverse caratteristiche dei racconti sulla Resistenza, e esaminerò anche altre forme di rappresentazione del passato, a cominciare dai diari, dalla memorialistica, dalle interviste. 4 Sul concetto di canone rimando agli studi di Banti sul Risorgimento. Cfr. Alberto M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000. 11 nella nuova prefazione al Il sentiero dei nidi di ragno. In quelle pagine, note agli studiosi, ma spesso dimenticate dai lettori meno attenti, Calvino provò a rifettere sull’origine del suo libro: «volevo combattere contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfda ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografca ed edulcorata»5 . La seconda battaglia, quella tutta interna alla «cultura di sinistra», è forse la più nota: per l’originale scelta di raccontare il passato attraverso gli occhi del bambino Pin e l’esperienza di una banda composta da «tipi un po’ storti», il romanzo d’esordio di Calvino è spesso identifcato, a proposito, come esempio di narrazione anticelebrativa. Calvino ne era consapevole: Cominciava appena allora – scrisse – il tentativo di una «direzione politica» dell’attività letteraria: si chiedeva allo scrittore di creare l’«eroe positivo», di dare immagini normative, pedagogiche di condotta sociale, di milizia rivoluzionaria. Cominciava appena, ho detto: e devo aggiungere che neppure in seguito, qui in Italia, simili pressioni ebbero molto peso e molto seguito. Eppure, il pericolo che alla nuova letteratura fosse assegnata una funzione celebrativa e didascalica, era nell’aria […]. La mia reazione d’allora potrebbe essere enunciata così: «Ah, sì, volete “l’eroe socialista”? Volete il “romanticismo rivoluzionario”? E io vi scrivo una storia di partigiani in cui nessuno è eroe, nessuno ha coscienza di classe […]»6 . Ma la scrittura de Il sentiero dei nidi di ragno si spiega solo in parte con la ribellione contro ogni «direzione politica» dell’attività letteraria, contro quel tentativo, denunciato dallo stesso autore, di afermare una memoria agiografca della guerra di liberazione. C’erano altri nemici da fronteggiare, quei «detrattori della Resistenza» che rialzarono presto la testa nel dopoguerra, avendo capito che gli italiani avrebbero difcilmente fatto i conti col proprio passato fascista. Le pagine della Prefazione sono dunque una testimonianza dell’oblio a cui in molti avrebbero volentieri destinato la memoria della Resistenza: A poco più di un anno dalla liberazione già la «rispettabilità ben pensante» era in piena riscossa, e approfttava di ogni aspetto contingente di quell’epoca – gli sbandamenti della gioventù postbellica, la recrudescenza della delinquenza, la difcoltà di stabilire una nuova legalità – per esclamare: «Ecco, noi l’avevamo sempre detto, questi partigiani, tutti così, non ci vengano a parlare di Resistenza, sappiamo bene che razza d’ideali…». Fu in questo clima che io scrissi il mio libro, con cui intendevo paradossalmente rispondere ai ben pensanti: «D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi d’essere!»7 . 5 Italo Calvino, Prefazione, in Id., Il sentiero dei nidi di ragno, Garzanti, Milano 1987, p. 14. 6 Ivi, p. 15. 7 Ivi, pp. 14-15. 12 La spiegazione di Calvino fornita nella Prefazione del 1964 non fu posticcia: se venne aggiunta dall’autore a posteriori per spiegare la genesi del suo libro a tema resistenziale, essa non fu il mero rifesso della temperie politica dell’inizio degli anni Sessanta, quando si sviluppò «una seconda proliferazione di romanzi partigiani […], anche sulla scia dell’imponente mobilitazione popolare contro la decisione del presidente del consiglio Tambroni di autorizzare il congresso dei neofascisti del Msi a Genova», nel 19608 . Tracce di quella medesima versione si trovano già nel romanzo del 1947, in particolare nel famoso capitolo ix, quello che comprende il monologo interiore del commissario Kim. Lo notiamo in particolare nel seguente brano, che sorprendentemente trasporta il lettore dal contesto temporale della guerra a quello del dopoguerra: Certo io potrei adesso invece di fantasticare come facevo da bambino, studiare mentalmente i particolari dell’attacco, la disposizione delle armi e delle squadre. Ma mi piace troppo continuare a pensare a quegli uomini, a studiarli, a fare delle scoperte su di loro. Cosa faranno «dopo», per esempio? Riconosceranno nell’Italia del dopoguerra qualcosa fatta da loro? Capiranno il sistema che si dovrà usare allora per continuare la nostra lotta, la lunga lotta sempre diversa del riscatto umano? Lupo Rosso lo capirà, dico io […]. Dovremmo essere tutti come Lupo Rosso. Ci sarà invece chi continuerà col suo furore anonimo, ritornato individualista, e perciò sterile: cadrà nella delinquenza, la grande macchina dei furori perduti, dimenticherà che la storia gli ha camminato al fanco, un giorno, ha respirato attraverso i suoi denti serrati. Gli ex fascisti diranno: i partigiani! Ve lo dicevo io! Io l’ho capito subito! E non avranno capito niente, né prima, né dopo9 . Ma Calvino non era isolato: altri intellettuali ex partigiani avevano le sue stesse idee. Tra questi, Carlo Lizzani: in molte occasioni egli ha infatti rimarcato l’infuenza della censura sulla produzione cinematografca del secondo dopoguerra. Su Achtung! Banditi!, per esempio, l’Ufcio centrale per la cinematografa si espresse negativamente, cercando così di esercitare un controllo preventivo: ne sconsigliò dunque la realizzazione, perché «lo spettacolo penoso di una guerra fratricida» sarebbe stato dannoso, in quella fase storica, «alla formazione di una coscienza unitaria italiana e lesivo verso l’estero del nostro prestigio di popolo civile», «sia per i rifessi interni, in quanto il lavoro contrasta con un’auspicabile pacifcazione, sia per i rifessi esterni, in quanto il flm ripropone, in tutta la sua asprezza, l’odio contro i tedeschi che faticosamente si cercano di inserire nel quadro di un’Europa 8 Gabriele Pedullà, Alla ricerca del romanzo, in Beppe Fenoglio, Una questione privata, Einaudi, Torino 2006, pp. xxiii-xxiv. 9 Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, cit., pp. 155-156. Sul passaggio della Resistenza da esperienza individuale a collettiva, Calvino ragionò nel racconto La stessa cosa del sangue, in Id., Ultimo viene il corvo, Einaudi, Torino 1949. Per alcune letture del romanzo di Calvino: Annalisa Ponti, Come leggere “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino, Mursia, Milano 1991; Andrea Dini, Il Premio nazionale «Riccione» 1947 e Italo Calvino, Il Ponte Vecchio, Cesena 2007. 13 riorganizzata democraticamente»10. Come il regista ha dichiarato in un’intervista, il flm a quel punto fu realizzato solo perché la Cooperativa Spettatori Produttori Cinematografci non si fece spaventare e tirò dritto nel progetto sulla Resistenza genovese11. Ma se torniamo a esaminare la letteratura, gli esempi si moltiplicano. Cesare Pavese, che de Il sentiero dei nidi di ragno fu grande estimatore, nel capitolo xii de La luna e i falò rievocò la stessa atmosfera attraverso il racconto del ritrovamento di due cadaveri privi di identità, della cui uccisione furono accusati i partigiani: tale episodio divenne così il pretesto per rinfocolare tout court il disprezzo della Resistenza. Ci fu uno che disse: – È difcile accusare i comunisti. Qui le bande erano autonome […]. – Che fossero autonomi, – strillò il fglio della madama della Villa, – non vuol dire. Tutti i partigiani erano degli assassini. – Per me, – disse il dottore guardandoci adagio, – la colpa non è stata di questo o di quell’individuo. Era tutta una situazione di guerriglia, d’illegalità, di sangue. Probabilmente questi due hanno fatto davvero la spia… Ma, – riprese, scandendo la voce sulla discussione che ricominciava – chi ha formato le prime bande? Chi ha voluta la guerra civile? Chi provocava i tedeschi e quegli altri? I comunisti. Sempre loro. Sono loro i responsabili. Sono loro gli assassini. È un onore che noi Italiani gli lasciamo volentieri. La conclusione piacque a tutti. Allora dissi che non ero d’accordo. Mi chiesero come. In quell’anno, dissi, ero ancora in America. (Silenzio). E in America facevo l’internato. (Silenzio). In America che è in America, dissi, i giornali hanno stampato un proclama del re e di Badoglio che ordinava agli Italiani di darsi alla macchia, di fare la guerriglia, di aggredire i tedeschi e i fascisti alle spalle. (Sorrisetti). Più nessuno se lo ricordava. Ricominciarono a discutere. Me ne andai che la maestra gridava: – Sono tutti bastardi – e diceva: – È i nostri soldi che vogliono. La terra e i soldi come in Russia. E chi protesta farlo fuori12. Se il clima politico e culturale dell’Italia era dunque quello descritto dai vari autori citati, a esso non tutti si allinearono, nemmeno quando erano in ballo punti delicati come la violenza partigiana: questi sono anzi stati trattati in alcune delle pagine più interessanti della prima letteratura resistenziale. Nel dibattito odierno prevalentemente giornalistico sulla memoria della guerra civile si fa molta confusione su questo tema. Diversi accusano la cultura antifascista tout court di averlo volontariamente rimosso per ragioni politiche: ciò non è esatto13. Il ripensamento dell’esperienza partigiana condotto da alcuni intellettuali 10 La citazione del documento è tratta da Assunta Petricelli, Da Achtung! Banditi a Maria Josè; la Resistenza nel cinema di Carlo Lizzani, in Pasquale Iaccio (a cura di), La storia sullo schermo: il Novecento, Pellegrini Editore, Cosenza 2004, pp. 37-38. 11 Nella stessa intervista Lizzani parla della libera autocensura preventiva che esercitò su Cronache di poveri amanti, contribuendo a tagliare dalla sceneggiature le parti «più torbide, con cui la censura conformista sarebbe stata più dura». Ciò nonostante, il governo italiano impedì la vendita all’estero del flm. Ivi, pp. 44-46. Su molti di questi temi si veda anche Carlo Lizzani, Il mio lungo viaggio nel secolo breve, Einaudi, Torino 2007. 12 Cesare Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino 1950, pp. 49-52. 13 Il principale riferimento è ancora una volta Pansa. 14 italiani non si fermò neppure di fronte alle questioni più scomode. Infatti, se gli storici hanno iniziato a studiare questi problemi soprattutto negli ultimi vent’anni14, anzitutto prestando attenzione al sangue che fu versato durante l’insurrezione e nei giorni seguenti, in realtà i primi a occuparsi della violenza partigiana furono, accanto ai giudici15, proprio gli scrittori. Tra i molti esempi, possiamo citare: la vicenda dei giovanissimi Riccio e Bellini in Una questione privata di Fenoglio, condannati a morte per rappresaglia a seguito dell’azione di Milton; il destino del Dritto e le rifessioni di Kim ne Il sentiero dei nidi di ragno; la crisi e i dubbi di Corrado ne La casa in collina, immagine rifessa del tormento di Pavese e delle sue idee pacifste. Personaggi come Calvino, Fenoglio, Pavese e Lizzani si opposero dunque anzitutto a un dibattito pubblico giocato a suon di semplifcazioni politicamente strumentali, che nascondeva e rimuoveva domande più profonde sul ventennio, sulle scelte delle persone comuni, sul modo di raccontare agli italiani la propria storia recente e sul bisogno impellente di farlo16. Già nel dopoguerra, tali interrogativi caratterizzarono invece l’opera di questi intellettuali antifascisti, nel clima antipartigiano difusosi nella neonata Italia repubblicana. La Resistenza popolare Che cosa accomuna opere letterarie come Il sentiero dei nidi di ragno (1947), La casa in collina (1948), La luna e i falò (1950), L’Agnese va a morire (1949), Una questione privata, 14 Tra i primi stimoli allo studio della violenza: Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. Negli anni Novanta si aprì dunque un nuovo flone di studi. A titolo di esempio: Massimo Storchi, Uscire dalla guerra. Ordine pubblico e dibattito politico a Modena, 1945-1946, FrancoAngeli, Milano 1995; Gabriele Ranzato, Il linciaggio di Carretta. Roma 1944: violenza politica e ordinaria violenza, Il Saggiatore, Milano 1997; Mirco Dondi, La lunga liberazione: giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 1999; Silvano Villani, L’eccidio di Schio. Luglio 1945: una strage inutile, Mursia, Milano 1999; Gianni Oliva, La resa dei conti, Mondadori, Milano 1999; Guido Crainz, La violenza postbellica in Emilia tra «guerra civile» e confitti antichi, in Paolo Pezzino, Gabriele Ranzato (a cura di), Laboratorio di storia. Studi in onore di Claudio Pavone, FrancoAngeli, Milano 1994, pp. 191-205; Id., La giustizia sommaria in Italia dopo la Seconda guerra mondiale, in Marcello Flores (a cura di), Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Mondadori, Milano 2001. 15 Michela Ponzani, L’ofensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana (1945-60), Aracne, Roma 2008. 16 È ciò che Pavone ha giustamente chiamato «moralità», termine spiegato come segue nella Prefazione all’edizione 1994 del suo libro: «avevo cercato soltanto di ricostruire le grandi linee della “moralità” sottesa in quel periodo ai comportamenti degli italiani, fascisti inclusi (anche se di essi mi sono occupato più sbrigativamente). Dopo gli eccessi di una storiografa prevalentemente politica, che sembrava vedere nelle “linee” dei partiti gli unici agenti della storia, io avevo cercato di spostare lo sguardo sui soggetti operanti a più livelli, sulle loro varie e molteplici motivazioni, intenzioni, speranze, illusioni. È evidente che non sono soltanto queste a essere presenti nella storia, ma è altrettanto sicuro che, se non le si prende in considerazione, non si riescono a intendere bene neppure gli esiti, compresi quelli politici» (Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2006, volume primo, p. xv). 15 Il partigiano Johnny17, i racconti di Ultimo viene il corvo (1949), e flm come Achtung! Banditi! (1951), Cronache di poveri amanti (1954) e Gli sbandati (1955)18? C’è un primo elemento comune da sottolineare: nella descrizione dell’organizzazione clandestina gli autori decisero anzitutto di dare risalto al carattere popolare della lotta partigiana. L’immagine della Resistenza che emerge dalle varie versioni è infatti quella di un movimento interclassista con una forte componente popolare19. Renata Viganò circondò la lavandaia Agnese di personaggi di ogni estrazione sociale: dal Comandante, di professione avvocato, a Magòn il fabbro, a Walter il contadino, a La Disperata, l’orfano che fn da bambino si arrangiava con la caccia e la pesca di frodo, a cui afancò tutti gli altri partigiani delle valli di Comacchio, Clinto, Tom, Tarzan, Zero, il Giglio, il Cino. Ma chi ha scavato più a fondo per capire il contributo dei vari gruppi alla lotta fu Calvino, nel monologo di Kim: nella sua Resistenza c’erano i contadini, gli operai come Ferriera, gli intellettuali e gli studenti, i prigionieri stranieri. Ma c’erano anche «ladruncoli, carabinieri, militi, borsaneristi, girovaghi. Gente che s’accomoda nelle piaghe della società e s’arrangia in mezzo alle storture»20, cioè i membri del distaccamento del Dritto. Tali tentativi di ofrire un’idea della composizione sociale del movimento partigiano avrebbero però rischiato di produrre una rappresentazione parziale della Resistenza: parlavano esclusivamente dei combattenti. Per fornire un quadro più completo, questi intellettuali narrarono anche la partecipazione della popolazione civile alla guerra di liberazione, quella portata avanti senza prender parte alle azioni militari. Il racconto della resistenza civile e della guerra senza le armi, anzitutto delle donne21, svelava al pubblico il volto antieroico di molte storie della Resistenza italiana, contribuendo a presentare nel dopoguerra la guerra partigiana come movimento popolare che trovò consenso in alcuni – non tutti, non tanti – settori della società: una guerra di popolo – anche se non di tutto il popolo italiano –, non solo di partigiani combattenti politicizzati. 17 Come noto, la datazione delle opere di Fenoglio è discussa. Maria Corti sostiene che i due scritti citati siano di molto precedenti alla data di pubblicazione e che risalgano alla fne degli anni Quaranta. Cfr. Beppe Fenoglio, Opere, edizione critica curata da Maria Corti, Einaudi, Torino 1978; Maria Corti, Metodi e fantasmi, Feltrinelli, Milano 1969. 18 Questo elenco delle opere è parziale e puramente indicativo: è infatti stata esaminata tutta la produzione resistenziale degli autori citati. 19 Tale elemento si ripropose tra gli autori della seconda fase della letteratura sulla Resistenza. Come scrisse Meneghello, in uno dei più importanti romanzi, descrivendo la formazione delle prime bande nella provincia veneta: «C’erano popolani e borghesi, militari e civili; c’erano studenti e giovani; c’erano riformati, commercianti, qualche storpio, gente di chiesa, ladri, maestri; c’erano tutti […]» (Luigi Meneghello, I piccoli maestri, BUR, Milano 2009, pp. 28-29). 20 Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 150. 21 A questi temi sono stati dedicati in anni più recenti importanti lavori di ricerca. Mi limito a citare Jacques Sémelin, Senz’armi di fronte a Hitler. La resistenza Civile in Europa 1939-1943, Sonda, Torino 1993 e Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, In guerra senza le armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995. 16 Perché insistere su questo punto, che poco rispondeva a una presunta «direzione politica» dell’attività letteraria volta a costruire eroi positivi e rivoluzionari? Per contrastare con più forza l’oblio a cui era stata destinata la memoria resistenziale, per sottolineare l’antifascismo esistenziale di molti italiani, per narrare le vicende di chi, ofrendo aiuto, rifugio, da mangiare, protezione per qualche ora ai partigiani, contribuì alla caduta del regime. Erano storie di contadini, di pastori, di ferrovieri, di persone umili, rimaste quasi totalmente nell’ombra rispetto al grande palcoscenico occupato da chi combatté la guerra in prima persona, sparando. Erano per esempio le storie di chi, dopo l’8 settembre, aiutò migliaia di militari sbandati a sfuggire all’arresto. Proprio quelle raccontate magistralmente da Pavese: Le strade e le campagne formicolavano di fuggiaschi, di soldati infagottati in impermeabili, stracci, giacchette, scampati dalle città e dalle caserme dove tedeschi e neo-squadristi infuriavano. Torino era stata occupata senza lotta, come l’acqua sommerge un villaggio; tedeschi ossuti e verdi come ramarri presidiavano la stazione, le caserme; la gente andava e veniva stupita che nulla accadesse, nulla mutasse; non tumulti, non sangue per le vie; solamente, incessante, sommessa, sotterranea, la fumana di scampati, di truppa, che colava per i vicoli, nelle chiese, alle barriere, sui treni. Altre cose strane accadevano. Lo seppi da Cate, da Dino, dai loro bisbigli e ammicchi d’intesa. Fonso e gli altri incettavano armi, svaligiavano magazzini e ripostigli; qualcosa nascosero anche alle Fontane. Nei sobborghi, abiti borghesi piovevano dalle fnestre sui soldati in fuga. Dove fnivano quelli scampati ai tedeschi? Chi ci arrivava, si capisce, a casa sua; ma gli altri, i lontani da casa, i siciliani e calabresi, i risucchiati dalla guerra, dove passavano i giorni e le notti, dove si fermavano a vivere?22. Fenoglio riportò vicende molto simili, attraverso i ricordi di Milton e del suo 8 settembre 1943: – Mi dica. Fulvia quando partì precisamente? – Precisamente il dodici settembre. Suo padre aveva già capito che la campagna sarebbe diventata molto più pericolosa della grande città. – Il dodici settembre, – fece eco Milton. E lui, lui dove era il dodici settembre 1943? Con un immenso sforzo se ne ricordò. A Livorno, asserragliato nei cessi della stazione, digiuno da tre giorni, miserabilmente vestito di panni d’accatto. Sul punto di svenire per l’inedia e le esalazioni della latrina si era affacciato sul corridoio e aveva cozzato in quel macchinista che si stava abbottonando la brachetta. «Da dove vieni, militare?» bisbigliò. «Roma». «E dov’è casa tua?» «Piemonte». «Torino?» «Vicinanze». «Be’, io ti posso portare fino a Genova. Si parte tra mezz’ora, ma ti voglio nascondere subito nella carbonaia. Mica te ne frega di sembrare poi uno spazzacamino?» […]23. 22 Cesare Pavese, La casa in collina, Torino, Einaudi, 2008, pp. 62-63 23 Beppe Fenoglio, Una questione privata, cit., p. 17. 17 All’inizio de L’Agnese va a morire, la vecchia lavandaia vive la stessa situazione, quando presta assistenza a un giovane militare in fuga. Ma i casi di solidarietà popolare sono numerosi nelle opere analizzate e non si limitano ai giorni dell’armistizio: rappresentavano davvero un tratto importante del canone resistenziale neorealista che stiamo esaminando. Lizzani, parlando del suo Achtung! Banditi! e di altri film sulla Resistenza, disse che a quel tempo era necessario mettere «in luce l’eroismo dei partigiani e anche quello di tante persone non coinvolte direttamente nella lotta armata, preti, donne, la popolazione civile, che appoggiò la Resistenza»24. Non a caso, proprio nel suo film del 1951 si trovano diversi riferimenti a gesti di solidarietà dei civili e alle varie resistenze senza armi. Ne citiamo solamente alcuni: il caso della ragazza che, all’inizio, aiuta i partigiani a fuggire dai tedeschi, quello della sua famiglia che nasconde un giovane combattente, e quello delle donne che, verso la fine, accorrono in massa e silenziose alle porte della fabbrica occupata dai nazisti. Sulla relazione tra movimento partigiano e società le parole di Renata Viganò appaiono particolarmente lucide. Dal suo romanzo, infatti, emerge bene l’immagine di un rapporto simbiotico tra bande di partigiani e parte della comunità: Venivano i colpi, fitti, inattesi, e non si sapeva di dove. I partigiani, i loro capi, i loro servizi indispensabili, i loro movimenti di truppa, tutta la vasta organizzazione di un esercito, erano lì, nel territorio, nella zona, vicini, lontani, premevano col peso di un’attività costante, sfuggivano al controllo con la lievità di una presenza invisibile. C’erano, e non si conosceva il luogo: comparivano e scomparivano come ombre, ma ombre col fucile carico, col mitra che sparava. Ogni uomo poteva essere un partigiano, poteva non esserlo. Questa era la forza della resistenza. Per difendersi, per sciogliere quei vincoli che legavano sempre più stretti, per distruggere i nidi da cui nasceva la morte, bisognava dar fuoco a un paese intero, ammazzare tutti, partigiani e civili, innocenti e traditori, amici e nemici. I tedeschi lo facevano. Un giorno, all’improvviso, bruciavano un villaggio, e non sapevano perché proprio quello e non un altro. Erano tutti uguali: c’era in tutti l’odio contro i tedeschi, l’azione armata, la cospirazione, il terrore, eppure bruciavano quello e non un altro («Un lavoro della paura», come diceva l’Agnese)25. C’è un ultimo aspetto sul quale si soffermarono scrittori e registi per valorizzare la resistenza popolare: la lotta antifascista venne presentata come esperienza democratica, di alfabetizzazione politica di intere generazioni di italiani. Non mancano infatti rappresentazioni di un modello di politicizzazione delle masse che non nasceva solamente dall’indottrinamento dei più giovani e inesperti a opera degli antifascisti della prima ora, ma che si faceva in corso d’opera attraverso la vita di banda. Le varie pratiche democratiche che molti ragazzi impararono a conoscere lentamente nella quotidianità, attraverso le discussioni per decidere cosa fare, la redazione di giornali di brigata o di distaccamento, l’elezione dei comandanti, contribuirono a creare la cultura democratica di generazioni 24 Assunta Petricelli, Da Achtung! Banditi a Maria Josè, cit., p. 39. 25 Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, Torino 1974, pp. 181-182. 18 politicamente analfabete: ci riferiamo ovviamente a quell’esperienza di democrazia dal basso di cui ha parlato Guido Quazza26. Ma come raccontare tale processo? Come trasferirlo in un romanzo o sulla pellicola? La strada scelta da questi autori fu semplice: inserire nella narrazione scene di dialogo, di litigio, di confronto tra i partigiani. Esattamente come fece Calvino introducendo la conversazione tra Kim e Ferriera sulle ragioni che spinsero gli individui a lottare; o come fece Maselli ne Gli sbandati, girando la sequenza in cui i militari devono scegliere se nascondersi, tornare a casa o unirsi alle prime bande; oppure come fece Lizzani in Achtung! Banditi! in almeno due scene, quando, scampati ai tedeschi, i partigiani si fermano in un bosco per decidere se e come procedere, oppure quando, di sera, il comandante e il commissario politico discutono della lotta partigiana e dei vari comportamenti individuali27. Tutti questi esempi hanno il medesimo fine: dimostrare che le persone di diversi ceti sociali contribuirono alla nascita della democrazia dopo averne praticato i rudimenti in banda. Le scelte politiche degli italiani C’è un secondo punto che, più di altri, caratterizza e accomuna le varie opere esaminate: l’attenzione alle scelte politiche degli italiani comuni prima e durante la guerra, e ai tanti percorsi individuali. Ancora una volta ci tornano utili le riflessioni di Calvino nella Prefazione. Quando lo scrittore provò, così efficacemente, a definire il neorealismo italiano come «un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie»28, egli accentuò il ruolo svolto nella narrazione dalla «caratterizzazione locale» e dalla ricerca «dei dialetti e dei gerghi», necessari a «dare sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo». Secondo tale interpretazione del neorealismo, ogni scrittore, ogni autore dava forma alla propria opera partendo dalla descrizione del suo paesaggio, vale a dire da un contesto locale familiare. Ma questo paesaggio, questo contesto locale non occupavano il primo piano del racconto: essi erano funzionali a qualcos’altro, cioè a ricondurre tutta l’attenzione «a delle persone, a delle storie». Dalle opere analizzate traspare con evidenza una precisa operazione narrativa: il luogo e lo spazio geografico erano contorni necessari per raccontare ciò che stava più a cuore agli autori, cioè le storie degli individui, anzitutto le loro scelte durante il fascismo, durante la guerra e soprattutto dopo l’8 settembre 1943. Essi erano interessati a far emergere da quale parte stessero gli italiani, con i fascisti o con gli antifascisti, e in che modo e perché 26 Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, Feltrinelli, Milano 1976. 27 La seconda scena ha una forte analogia con il capitolo ix de Il sentiero dei nidi di ragno. 28 Italo Calvino, Prefazione, cit., p. 9. 19 avessero deciso con chi schierarsi. Per dirla con le parole di Calvino, i vari racconti della Resistenza presero forma grazie alle «riflessioni sul giudizio morale verso le persone e sul senso storico delle azioni di ciascuno di noi»29. Possiamo fare numerosi esempi a riguardo. Il primo è celebre, ossia il dialogo tra il comandante Ferriera e il commissario politico Kim nel ix capitolo de Il sentiero dei nidi di ragno, già più volte ricordato nel saggio. L’oggetto della discussione tra i due personaggi è proprio la scelta politica degli italiani: in altre parole, il tentativo di capire che cosa avesse mosso le coscienze, che cosa avesse spinto le persone a stare da una parte o dall’altra. Il brano è noto, dunque è suffciente richiamarlo. Forse meno noto è il racconto La stessa cosa del sangue, in cui Calvino si è concentrato sulle preoccupazioni di due ragazzi per il destino dei genitori, in particolare per quello della madre fatta prigioniera dai fascisti, e sulle possibili ritorsioni a seguito delle azioni partigiane: è un racconto che si occupa delle paure e delle emozioni, e di come esse incidessero sulle scelte individuali30. Si possono fare molti altri esempi oltre a Calvino. La nota epopea di Milton raccontata da Fenoglio in Una questione privata introduce nell’analisi delle scelte politiche le variabili interiori, personali, ben lontane dall’epica resistenziale: com’è noto, Milton vaga per trovare risposta a un dubbio d’amore, e nella sua ricerca combatte con i fascisti e con i tedeschi, in quel momento ostacoli verso la sua verità, non solo nemici politici. Anche L’Agnese va a morire si sofferma sulla centralità della dimensione privata nella scelta partigiana: Agnese segue infatti un percorso intimo verso la clandestinità, che comincia con l’uccisione del marito e con l’odio che quella perdita le genera. Sarebbe sbagliato minimizzare la rilevanza politica di quel vissuto: l’influenza dell’esperienza personale, dei legami familiari, del dolore per i parenti morti in guerra o trucidati dai nazi-fascisti nella scelta antifascista accomunò tanti uomini e donne entrati nella Resistenza, come numerose interviste ormai hanno dimostrato. Ma Renata Viganò non si è limitata a riflettere sulle scelte della protagonista del romanzo: il suo sguardo si è allargato alle varie scelte degli italiani in guerra, alla loro moralità. Per questa ragione la scrittrice emiliana affrontò in varie pagine il tema del collaborazionismo, la cui importanza è emersa solo recentemente nel dibattito storiografco31: 29 Ivi, p. 20. Calvino scrive anche: «Per molti miei coetanei, era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti tutt’a un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall’altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile». 30 «La lotta, l’odio per i fascisti non erano più come prima, per il maggiore una cosa imparata sui libri, ritrovata come per caso nella vita, per il minore una bravata, un girare per le mulattiere carico di bombe a spaventare le ragazze, erano ormai la stessa cosa del sangue, una cosa profonda in loro come il senso della madre, una cosa decisa una volta per tutte, che li avrebbe accompagnati per la vita» (la citazione è presa dall’edizione: Italo Calvino, La stessa cosa del sangue, in Id., Ultimo viene il corvo, Milano, Mondadori, 2011, p. 81). 31 Si veda per esempio: Luciano Allegra, Gli aguzzini di Mimo. Storie di ordinario collaborazionismo (1943- 1945), Silvio Zamorani editore, Torino 2010. 20 C’erano degli italiani, uomini e donne, a cui piaceva esserci insieme [ai tedeschi, ndr], e che parlavano da scemi coi verbi all’infinito per farsi capire. Dicevano che erano costretti a lavorare per loro, ma invece di scaldargli il rancio nelle gavette, facevano le sfoglie e i dolci il giorno di Natale, per i nemici, come fossero dei fratelli32. L’autrice appare dunque attenta a disegnare le varie traiettorie individuali, quelle di chi entrava nelle bande partigiane, di chi stava fuori aiutando, di chi cercava solo di sopravvivere e di chi, nella popolazione, offriva in ogni forma qualche sostegno ai tedeschi: Stando nei rifugi, i partigiani guardavano il tratto piano di bonifica […]. Essi da tempo non erano stati vicini alle case della gente, dove si vive in qualche modo come quando la guerra non esisteva, e si fa da mangiare in una cucina, e si dorme nei letti, e i bambini giuocano fuori quando c’è il sole. Si erano dimenticati di queste cose, gli pareva di essere in un’altra vita, di guerra soltanto, la vita romantica e crudele dell’assalto, della guardia armata, della difesa, delle esecuzioni, delle torture, delle marce, degli appostamenti, la vita disperata del loro carcere di acqua e di ghiaccio. Invece, a poca distanza, anche qui sulla linea del fronte, c’erano ancora i civili, gli sfollati, la gente del posto che si rifiutava di andar via per non abbandonare le case, i campi, i pollai, gli orti, e teneva duro sotto i bombardamenti: il «coraggio dell’avarizia», come diceva l’Agnese. Ma c’era anche un coraggio della vigliaccheria, c’era qualcuno di quei civili che si prendeva il gusto di uscire in una mattina di gennaio, lasciava il suo fuoco, i suoi grossi muri che lo proteggevano, il rifugio scavato dove scendeva durante le incursioni, il pranzo da preparare, la mucca da mungere – quell’unica mucca rimasta dopo le razzie germaniche –, i bimbi da vestire, per andare a dire al comandante tedesco che aveva visto i partigiani, e quanti erano, e dove andavano. Questo «civile», uomo o donna o ragazzo, di solito sveniva di paura a ogni rombo di aereo, o fischio di granata, ma in quei casi non indietreggiava davanti a niente, percorreva strade scoperte, esposto ad ogni sorta di disgrazie, correva anche sotto una pioggia di proiettili. Per far ammazzare, lui italiano, dei partigiani italiani, adoperava un coraggio da medaglia d’oro33. Come Calvino, Renata Viganò non ha dunque narrato un solo tipo di scelta: essa ha inteso presentare ai lettori un vero e proprio ventaglio di scelte, quelle di chi stava con la rsi o con il cln. Molte e plurali, queste scelte sono messe in evidenza anche in Cronache di poveri amanti di Lizzani. Anche se il flm tratto dall’omonimo romanzo non parla della guerra, ma dell’avvento del fascismo, proprio le prime sequenze ci avvicinano ai vari personaggi, ai loro comportamenti e alle loro responsabilità. Grazie al sapiente uso delle inquadrature e del montaggio, il regista salta così da un protagonista all’altro: dal maniscalco antifascista Corrado al venditore ambulante Ugo, da Alfredo, il proprietario della pizzicheria poi menato dai fascisti per essersi rifiutato di prendere la tessera del pnf, a sua moglie, dalla prostituta Elisa, 32 Renata Viganò, L’Agnese va a morire, cit., p. 190. 33 Ivi, p. 236-237. 21 amante di un ammonito, al ragioniere fascista Bencini e all’usuraia, al cui cospetto passano in molti. La società italiana della metà degli anni Venti è dunque analizzata da Lizzani al microscopio. Attraverso un luogo, via del Corno, il regista guida l’attenzione del pubblico verso le diverse vicende personali: per questo ogni personaggio è stato magistralmente caratterizzato, ognuno ha una sua storia, e ognuno nel corso del film fa le proprie scelte. Con un taglio diverso, lo stesso accade ne Gli sbandati di Francesco Maselli. A tal proposito è esemplare la discussione che i soldati sbandati, rifugiatisi nella villa in provincia della ricca famiglia lombarda, intavolano tra loro per decidere che fare: ognuno porta il suo punto di vista e le sue ragioni, e ognuno decide poi dove andare, se unirsi alle prime bande partigiane o nascondersi, prendere tempo e cercare di tornare a casa. Non sono però le uniche scelte che Maselli mette in scena. Ci sono anche quelle degli sfollati, e in particolare della giovane operaia Luisa, che decide alla fne di unirsi ai partigiani, e quelle dei giovani benestanti milanesi: Andrea, figlio della famiglia proprietaria della villa, si innamora di Luisa e decide di seguirla con i partigiani, ma poi cambia idea dopo l’intervento della madre; suo cugino Carlo, determinato nella scelta antifascista; l’amico Ferruccio, chiaramente schierato con Mussolini. Più di altri, Pavese ha introdotto in quest’analisi corale dei comportamenti degli italiani un’ulteriore tipologia di scelta: quella di nascondersi e non combattere. Tale possibilità non manca nelle opere degli altri autori, ma Pavese ci ha certamente lasciato le pagine più limpide al riguardo. Com’è noto, lo scrittore ne parla ne La casa in collina, attraverso la storia del protagonista. Il passo in cui Corrado discute della guerra con Cate ci aiuta a chiarire: Andammo un tratto in silenzio. Dino trottava sulla strada accanto a me. – Vorrei soltanto che finisse, – dissi. Cate alzò il capo vivamente. Non disse parola. – Sí, lo so, – brontolai, – l’unico modo è non pensarci e lavorare. Come Fonso, come gli altri. Buttarsi nell’acqua per non sentire il freddo. Ma se nuotare non ti piace? Se non t’interessa arrivare di là? Tua nonna ne ha detta una giusta: chi ha la pagnotta non si muove. Cate taceva. – Di’ la tua, signora. Cate mi adocchiò di sfuggita e sorrise appena. – Quel che vorrei, te l’ho già detto. – Fare o non fare queste cose, – dissi forte, – è sempre un caso. Non c’è nessuno che cominci. I patrioti e i clandestini sono tutti sbandati, renitenti, compromessi da un pezzo. Gente che è già caduta in acqua. Tanto vale. – Molti non sono compromessi, – disse Cate. – Tutti i giorni ne casca qualcuno che poteva restarsene a casa tranquillo. Prendi Tono… – Ah ma è qui che ha ragione la vecchia, – esclamai, – c’è un destino di classe. Vi ci porta la vita che fate. Non per niente l’avvenire è nelle fabbriche. Mi piacete per questo… Cate non disse nulla, e sorrideva […]34. 34 Cesare Pavese, La casa in collina, cit., pp. 68-72. 22 Il percorso di Corrado è diverso da quello degli amici che stavano formando le prime bande partigiane appena fuori Torino. Ma quelle differenti vicende individuali servirono, tutte insieme, ai vari autori ad attirare l’attenzione della società italiana sulla recente storia del paese dilaniato dalla guerra civile, sui comportamenti degli italiani comuni e sulle tante vicende periferiche e singolari35. Per la scarsa linearità, per la loro molteplicità e varietà, tali storie diventavano esemplari: non perché eroiche, ma perché assolutamente comuni. Insomma, erano tutte storie eccezionali, e per questo assolutamente normali36. Il bisogno di raccontare Ma perché dedicarsi a esse? Cosa spinse diversi autori a porre al centro del racconto proprio gli individui, non solo attraverso la caratterizzazione dei vari protagonisti, come Milton, Agnese, Pin, Cugino, Kim, Fonzo, Cate, Corrado, Andrea, Luisa, ma più in generale attraverso l’attenzione ai singoli destini e ai vari personaggi, anche a quelli che appaiono fugacemente sulla scena come comparse? Le tante vicende singolari furono la risposta letteraria e cinematografica sia alle ricostruzioni agiografiche della Resistenza sia alla rimozione della storia partigiana dalla memoria collettiva. La pluralità e la contraddittorietà dei percorsi personali si opponevano di fatto allo stereotipo dell’eroe partigiano, offrendo un quadro molto più variegato dei comportamenti degli italiani. Chi aveva contribuito alla guerra di liberazione, tanto o poco, con le armi o senza, avrebbe potuto così riconoscersi in una delle tante storie narrate nei romanzi o nei film, piuttosto che identificarsi a fatica con l’unico modello dell’eroico combattente socialista. Ma dato che nel Paese si respirava l’aria viziata dell’oblio, l’esame delle scelte politiche compiute dagli italiani nel recente passato aveva un valore morale nella fase in cui si stavano ponendo le basi della democrazia. Il ricordo di Nuto Revelli di quel periodo mostra con chiarezza le tensioni presenti nella società. Convocato dinanzi alla commissione militare che, nel 1947 o nel 1948, stava indagando per scoprire che fine avessero fatto «i muli della Littorio il 25 aprile», Revelli reagì così alle domande del generale che interrogò: Io l’ho guardato ed ero già preparato. «Senta, lei prima deve dirmi dov’era l’8 settembre e cosa ha scelto. Per me è un dato assoluto, altrimenti non parlo. Lei cos’ha fatto l’8 settembre?» mi ha risposto: «Lei è un impertinente». Ho ribattuto. «Non è lei l’impertinente a venirci a rompere l’anima, dopo 3 anni, a cercare i muli della Littorio? Ma cosa vuole che sappiamo dei muli della Littorio?»37. 35 Gli stessi elementi si ritrovano in Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (1945). 36 L’ossimoro eccezionale normale fu introdotto da Edoardo Grendi. 37 Nuto Revelli, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Einaudi, Torino 2003, pp. 186-187. 23 Infatti, piuttosto che fare i conti con la storia fascista, in molti preferirono rimuovere ogni discussione sulle responsabilità individuali e collettive, e cercarono così di relegare al silenzio ogni memoria resistenziale. Questa rimozione aveva per altro una giustificazione politica nel nuovo scenario internazionale: non solo i molti italiani che erano stati fascisti dovettero frettolosamente riciclarsi repubblicani e democratici cancellando ogni riferimento al proprio passato, ma i richiami alla guerra e alle violenze dei tedeschi sarebbero stati d’impedimento alle manovre geo-politiche del blocco atlantico. E non ci si fermò al silenzio. È sempre Revelli a raccontare: Ben presto inizia una campagna di diffamazione nei confronti della Resistenza, in parallelo con furiosa «crociata anticomunista». Dopo i grandi entusiasmi dell’immediato dopo-Liberazione i partigiani non sono più «di moda». I fascisti, più o meno camuffati, fiutano l’aria, sentono la situazione, e ricominciano ad alzare la testa. […] I fascisti, dunque, rialzano la testa, e incominciano le denunce contro i partigiani. È normale se il clima era quello!38 Parlare delle singole scelte degli italiani fu dunque un modo per mettere ciascuno di fronte alle sue responsabilità: queste non potevano essere dimenticate tanto facilmente, soprattutto se i vecchi fascisti cominciavano a presentarsi all’opinione pubblica come nuovi democratici. Ma la reazione alla mitizzazione della Resistenza e al suo oblio non è l’unica spiegazione degli indirizzi narrativi di una generazione di scrittori e registi neorealisti. Per gli ex antifascisti e partigiani, la componente autobiografica ebbe un peso enorme. L’«aver fatto il partigiano» apparve a me come a molti altri giovani – scrisse Calvino all’inizio degli anni Sessanta – un avvenimento irreversibile nelle nostre vite, non una condizione temporanea come il «servizio militare». Da quel momento in poi vedevamo la nostra vita civile come la continuazione della lotta partigiana con altri mezzi; la disfatta militare del fascismo non era che un presupposto; l’Italia per cui avevamo combattuto esisteva ancora solo in potenza; dovevamo trasformarla in realtà su tutti i piani39. Letteratura e cinema assumevano dunque una connotazione morale e politica: ma quali furono le conseguenze? Lo stesso Calvino ha provato a riflettere sul rapporto tra autobiografa e produzione letteraria. Ricordando la sua esperienza partigiana e gli effetti che ebbe sulla letteratura, scrisse: 38 Nuto Revelli, Le due guerre, cit. pp. 184-185. 39 Italo Calvino, Autobiografa politica giovanile, Id., Saggi 1945-1985, Arnoldo Mondadori editore, Milano 2007, tomo ii, p. 2751. 24 La guerra diventò presto lo scenario dei nostri giorni, il tema unico dei nostri pensieri. Nella politica, anzi nella storia, ci trovammo immersi pur senza alcuna opzione volontaria. Cosa significava per l’avvenire del mondo e per l’avvenire di ciascuno di noi l’esito di quel confitto totale che insanguinava l’Europa? E quale doveva essere il comportamento di ciascuno di noi in quella vicenda così smisurata rispetto alle nostre volontà? Quale è il posto dell’uomo singolo nella storia? E la storia, ha un senso? E ha ancora un senso il concetto di «progresso»? Queste le domande che non potevamo non porre a noi stessi: ed è nata così quell’attitudine che non abbiamo più perduto, a configurare ogni problema come problema storico, o comunque a enucleare d’ogni problema la componente storica. Se il termine «generazione» ha un senso, la nostra potrebb’essere caratterizzata da questa speciale sensibilità della storia come esperienza personale […]40. Il rapporto tra vissuto e narrato non poteva essere esplicitato meglio. La biografa partigiana fu per i vari autori la fonte da cui attingere le informazioni per le proprie opere di finzione, ma rappresentò anche un interminabile bagaglio di vicende individuali: Con questa furia polemica mi buttavo a scrivere e scomponevo i tratti del viso e del carattere di persone che avevo tenuto per carissimi compagni, con cui avevo per mesi e mesi spartito la gavetta di castagne e il rischio della morte, per la cui sorte avevo trepidato, di cui avevo ammirato la noncuranza nel tagliarsi i ponti dietro le spalle, il modo di vivere sciolto da egoismi, e ne facevo maschere contratte da perpetue smorfie, macchiette grottesche, addensavo torbidi chiaroscuri […]41. Quella «sensibilità della storia come esperienza personale» condizionò il modo di raccontare la Resistenza in molti che l’avevano vissuta in prima persona: tale sensibilità non si rivolse al mero soggettivismo, al semplice ricordo personale. Fu invece la chiave per riportare sulla scena le tante persone che combatterono la guerra: le scelte di quegli attori della storia doveva dunque diventare il vero oggetto di ogni racconto. Conclusioni Romanzi, racconti e film hanno contribuito fn dall’immediato dopoguerra alla costruzione della memoria della Resistenza italiana. Non possiamo però semplificare: parlare di un’unica memoria sarebbe sbagliato. Dopo la Liberazione, le interpretazioni del passato italiano si moltiplicarono e si contrapposero: non tutti avevano vissuto le medesime esperienze, non tutti avevano gli stessi interessi da affermare nella nuova Italia democratica e non tutti abbracciavano uguali idee politiche. Studiare quella memoria significa dunque 40 Ivi, pp. 2759-2750. 41 Italo Calvino, Prefazione, cit., p. 16. 25 prendere atto della sua molteplicità: non la memoria, dunque, ma le memorie. Ma cosa significa ricostruire le memorie italiane della guerra civile? L’indagine storica ci aiuta a sottrarre il concetto di memoria da usi generici e astratti: se essa è composta da rappresentazioni prodotte da specifici individui e gruppi, è necessario esaminare i vari attori che contribuiscono a crearla, le loro intenzioni e i contesti in cui operano42. La ricerca in corso sulla memoria della Resistenza nel dopoguerra italiano si muove in questa direzione: i primi risultati dell’analisi delle opere di alcuni intellettuali neorealisti derivano proprio dall’applicazione di questi indirizzi di lavoro.

 

Letture resistenti

A cura di Enrico Manera, Istoreto

 

Istruzioni per l’uso. Quello che segue è una breve lista di libri recenti e/o importanti sulla Resistenza e sul 1943-‘45. Non è né completa né esaustiva, è una scelta di testi di orientamento, inquadramento, riflessione, divulgazione, narrazione, approfondimento locale.

Per un discorso più completo rinvio alla bibliografia ragionata di Metella Montanari, La Resistenza, Unicopli 2008 o al catalogo Istoreto.

 

Un ringraziamento a tutti in Istoreto, per la consulenza e i suggerimenti.

 

Orientamento

 

Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, 2004

Claudio PavoneUna guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, 1991, 2006

 

Enzo Collotti, Renato Sandri, Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza.

Vol. 1: Storia e geografia della Liberazione, Einaudi, 2000.

Vol. 2: Luoghi, formazioni, protagonisti, Einaudi 2006.

 

Eric Gobetti (a cura di) 1943-1945. La lunga liberazione, Milano, Franco Angeli, 2007

 

Novità/ristampe

 

Giovanni  De Luna, La resistenza perfetta, Feltrinelli 2015

Alberto Cavaglion, La Resistenza spiegata a mia figlia, Feltrinelli 2015

Norberto Bobbio e Claudio Pavone, Sulla guerra civile. La Resistenza a due voci, Bollati Boringhieri, 2015

Antonio Giolitti, Di guerra e di pace. Diario partigiano (1944-1945), Donzelli, 2015

Santo Peli, Storie di Gap, Laterza, Roma-Bari, 2014

Ilenia Carrone, Le donne nella ResistenzaLa trasmissione della memoria, Infinito edizioni, 2014

Nuto Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi 2014

Ada Gobetti, Diario partigiano, Einaudi, 2014

Giulio Questi, Uomini e comandanti, Einaudi, 2013

Sergio Luzzatto,  Partigia. Una storia della Resistenza, Mondadori, 2013

Michela Ponzani, Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico”, Einaudi, 2012.

Marisa Ombra, Libere sempre, Einaudi, 2012

Aldo Agosti e Chiara Colombini (a cura di), Resistenza e autobiografia della nazione. Uso pubblico, rappresentazione, memoria, Edizioni, SEB 27, 2012

Filippo Colombara, Vesti la giubba di battaglia. Miti, riti e simboli della guerra partigiana, Derive Approdi 2012

Daniele Biacchessi, Orazione civile per la Resistenza,  Corvino Meda-Promo Music, 2012

 

Piemonte/Torino

 

Nicola Adduci, Gli altri. Fascismo repubblicano e comunità nel Torinese (1943-1945), Franco Angeli, 2014.

Giulio Bolaffi, Partigiani in Val di Susa. I nove diari di Aldo Laghi,, Franco Angeli, 2014.

Simone Teich Alasia, Un medico della Resistenza, SEB 27, 2010

Marisa Ombra, La bella politica. La Resistenza, “Noi donne”, il femminismo, SEB27, 2009

Marisa Sacco, La pelliccia di agnello bianco, SEB27, 2008

Edi Consolo, Le Alpi, La Resistenza,  i paesaggi, SEB27, 2007

Carlo Chevallard, Diario 1942-1945. Cronache del tempo di guerra , Blu Edizioni, 2005

Nuto Revelli, Le due guerre, Einaudi 2005

Pietro Chiodi, Banditi, Einaudi, 2002

 

Narrativa

 

AA.VV.,  Storie della Resistenza, a cura di D. Gallo e I. Poma, Sellerio, 2013

SICIn territorio nemico, minimum fax 2013

Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Bur 2013

Giacomo Verri, Il partigiano inverno, Nutrimenti 2012

Paola Soriga , Dove finisce Roma, Einaudi 2012

Angelo Del Boca, Viaggio nella luna, La Mandragora 2011

Laurent Binet, HHhH, Einaudi, 2011

Gary Romain, Educazione europea, Neri Pozza, 2006

Beppe Fenoglio, I ventitré giorni della città di Alba, Einaudi 2006

Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi 2005

AA.VV., Racconti della Resistenza, a cura di G. Pedullà, Einaudi, 2005

Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, 1993

 

Libri per ragazzi

 

Luca Randazzo, L’estate di Giacomo. La guerra e un partigiano di undici anni, Rizzoli, 2014.

Daniela Morelli, La porta della libertà, Mondadori, 2012

Roberto Denti, Ancora un giorno, Piemme, 2011

Lia Levi, La villa del lago, Piemme Junior, 2011

Anna Sarfatti e Michele Sarfatti, Fulmine, un cane coraggioso: la resistenza raccontata ai bambini, Mondadori, 2011

Roberto Denti, La mia resistenza, Rizzoli, 2010

Lia Levi, La ragazza della foto, Casale Monferrato, Piemme Junior, 2005

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